Giustizia selettiva: la Palestina come questione femminista (Elia, 2017)
Consentimi di tornare su Wafa Idris; in questo momento storico, dove la collocano le donne radicali di colore, alla luce del nostro focus sulle intersezioni di razza, classe, genere, sessismo, omofobia, colonialismo e imperialismo? Analizzeremo l’impatto della colonizzazione sulla famiglia di Wafa? Sulle famiglie palestinesi? Sulle comunità palestinesi? ... Presteremo attenzione all’analisi delle femministe palestinesi sulla resistenza delle donne? Dove la collochiamo nel contesto delle metafore eroiche femministe che illuminano le trasformazioni delle donne dalla passività all’azione? E le teorizzazioni femministe sul corpo, come considerano una donna che usa il corpo come arma contro una macchina militare inarrestabile?
- Nadine Naber (2006)
Dobbiamo ancora comprendere i modi complessi in cui razza, classe, genere, sessualità, nazione e disabilità sono intrecciati; ma anche come andare oltre queste categorie per comprendere le interrelazioni di idee e processi che sembrano separati e indipendenti. Insistere sulle connessioni tra le lotte e il razzismo negli Stati Uniti e le lotte contro la repressione israeliana dei palestinesi, in tal senso, è un processo femminista.
- Angela Davis (2016)
Quando la stragrande maggioranza dell’Associazione Nazionale degli Studi delle Donne (NWSA) ha votato in sostegno del BDS alla sua convention annuale nel novembre 2015, l’attivista e studiosa palestinese Rabab Abdulhadi ha parlato di una “marronizzazione dell’organizzazione”, un cambiamento demografico nella più grande associazione accademica mainstream del Nord Globale dedicata agli studi di genere (citato in Redden, 2015, par. 7). Abdulhadi suggerisce che questo cambiamento demografico sia alla base del voto che non solo riconosce l’oppressione del popolo palestinese, ma approva e sostiene una strategia da loro proposta per porvi fine. Il BDS è l’appello palestinese per la solidarietà globale sotto forma di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele finché non rispetterà il diritto internazionale e porrà fine alle sue violazioni dei diritti umani del popolo palestinese. L’appello del BDS fu emesso nel luglio 2005, e dieci anni dopo, quello che era un sussurro flebile ai margini di vari gruppi progressisti è diventato un coro di voci che chiedono la fine delle atrocità di Israele nei confronti del popolo indigeno di cui occupa la terra. Questo cambiamento nel discorso, dovuto soprattutto ai dibattiti scaturiti dalle risoluzioni del BDS, rappresenta una frantumazione del mito sionista della “democrazia” e fragilità israeliana, la presunta vulnerabilità a un ambiente regionale ostile e aggressivo. E con la crescente consapevolezza tra varie comunità che Israele non è una democrazia sotto assedio, ma un violento stato coloniale, cresce il desiderio di condannarlo per i suoi crimini. In effetti, la conquista forse più significativa del BDS finora è stata la discussione aperta sulle violazioni israeliane del diritto internazionale e dei diritti umani del popolo palestinese, che precede ogni votazione su boicottaggi e disinvestimenti da parte di un consiglio comunale, una cooperativa, una chiesa o un’associazione professionale. Queste discussioni, dibattiti e forum aperti hanno lacerato la narrazione sionista, che poteva reggere solo sulla censura delle contro-storie.
Il voto della NWSA seguì a decisioni simili (previa lunghe discussioni) dell’Associazione Americana degli Studi dell’Asia (AASA), dell’Associazione degli Studi Nativi Americani e Indigeni (NAISA) e dell’Associazione degli Studi Americani (ASA), solo per citare alcune delle principali associazioni accademiche professionali nazionali. Altri gruppi simili hanno poi adottato risoluzioni pro-BDS, e molti, come l’Associazione della Lingua Moderna, stanno organizzando una risoluzione.
Ma sebbene i membri della NWSA siano davvero cambiati dal 1977, quando il gruppo fu istituito, il “femminismo di colore” non è un monolite, né è sempre stato a favore delle lotte anti-coloniali, almeno per quanto riguarda la Palestina. Il fatto che Nadine Naber abbia chiesto a questi movimenti di essere più coerenti, in un discorso citato nell’epigrafe di questo saggio, prova che la situazione dei palestinesi è spesso stata ignorata anche dai circoli femministi radicali. Sì, ci sono state alleanze di lunga data tra i palestinesi e altri gruppi radicali di colore. Il Women of Color Resource Center con sede a San Francisco, ad esempio, ha sempre condannato il colonialismo e il razzismo e, sotto la competente guida della direttrice esecutiva Linda Burnham, identificò il sionismo come una forma di razzismo già nel 2000. INCITE! Women of Color Against Violence ha pubblicato i suoi “Punti di Unione sulla Palestina” poco dopo la sua formazione, ma solo a seguito di lunghi dibattiti interni, dimostrando che le alleanze sono frutto di duro lavoro, non spontanee.
Tuttavia, sono poche le femministe palestinesi che non hanno subito diffidenza, incomprensioni o aperta ostilità nelle comunità di colore, anche comunità femministe di colore. E più ci addentriamo nella storia (per quanto sia recente), più troviamo situazioni simili. Infatti, mentre per alcuni degli attivisti più radicali del Nord Globale era ovvio che la nostra lotta non differiva dalle lotte di qualsiasi altro popolo colonizzato, il nostro desiderio di liberazione veniva troppo spesso frainteso da molti come antisemitismo, piuttosto che come un impulso organico per preservare la libertà, la dignità, l'autodeterminazione.1 Come afferma Angela Davis (2016): “Le questioni importanti nella lotta palestinese per la libertà e l’autodeterminazione vengono sminuite e insabbiate da chi vorrebbe equiparare al terrorismo la resistenza palestinese contro l’apartheid israeliana” (p. 34). Oggi accade meno frequentemente, ma certamente non è un problema del passato, né una prospettiva che prevale solo tra le femministe bianche. In realtà, queste “questioni importanti” rimangono invisibili alla maggior parte di chi non si cimenta di proposito nel cercare la verità, e persino le femministe di colore più famose non sempre hanno compreso la questione palestinese come una questione decoloniale.2
L’esclusione storica della Palestina da programmi altrimenti progressisti ha dato origine a un noto acronimo, la sindrome PEP: “Progressista Eccetto per la Palestina”. E, purtroppo, la PEP non è, né è mai stata, una malattia esclusivamente bianca. Quindi, mentre i palestinesi e i loro alleati accolgono il voto della NWSA come un significativo e atteso riconoscimento che la giustizia per la Palestina sia una questione femminista, molti dubitano che sia il risultato della “marronizzazione dell’organizzazione”, ma che derivi da un tardivo indebolimento della PEP nelle comunità nere, indigene, latine e bianche. E sarebbe ingenuo, se non folle, presumere un’alleanza organica e unanime tra le persone razzializzate sulla questione della Palestina, o su qualsiasi questione di razzismo. Questo perché la natura del razzismo è tale da separarci, aizzarci l’uno contro l’altro. Purtroppo, molti palestinesi, così come milioni di altri arabi, hanno assorbito anche gli stereotipi negativi sulle comunità razzializzate diffusi nel discorso dominante, e spesso possono essere razzisti contro i popoli indigeni, i neri e i latini. Inoltre, le “Olimpiadi dell’oppressione” - la competizione per dimostrare che la propria comunità o gruppo sociale è il più oppresso - hanno danneggiato quella che, fin dall’inizio, doveva essere una lotta unita contro un sistema strutturale di oppressione globale.
Il mio saggio, dunque, inizierà con una panoramica delle sfide affrontate dagli attivisti palestinesi della diaspora e i nostri alleati mentre interagivamo con altre femministe e “progressisti” nel Nord Globale, gruppi e individui che pensavamo apprezzassero le intersezioni con le nostre circostanze, ma che non hanno riconosciuto la situazione dei palestinesi come un’ingiustizia grave e una violazione dei diritti umani di un popolo. In seguito, traccerà i nostri progressi, tra i femminismi del Nord Globale e delle donne razzializzate, mentre attivisti e organizzatori finalmente comprendono che la lotta per l’autodeterminazione palestinese è una lotta per i diritti indigeni e che la prassi femminista comporta solidarietà con la lotta decoloniale. Infine, si conclude con un appello ai palestinesi perché continuino le alleanze forgiate o rafforzate negli ultimi anni, per contribuire a nostra volta alle lotte di altre comunità criminalizzate, quando (non se) raggiungeremo il nostro obiettivo di autodeterminazione e sovranità indigena.
Femminismo liberale e/è Sionismo
Il 25 novembre 2015, la National Women’s Studies Association è diventata la prima associazione accademica mainstream focalizzata sul genere a votare, con significativa maggioranza, a sostegno del BDS. Il femminismo del Nord Globale aveva fatto molta strada dai tempi in cui Betty Friedan, in modo maleducato, insensato e paternalistico, cercò di zittire la prominente femminista egiziana Nawal al-Saadawi alla Conferenza Internazionale sulle Donne delle Nazioni Unite a Nairobi, in Kenya. “Per favore, non parlare della Palestina nel tuo discorso”, aveva detto Friedan ad al-Saadawi mentre questa stava salendo sul palco per tenere la sua conferenza. “Questa è una conferenza sulle donne, non una conferenza politica”, aveva poi aggiunto (citato in al-Saadawi, 2006, p. ii).
Il tentativo di censura era avvenuto trent’anni prima, nel 1985. Naturalmente, se Friedan avesse capito qualcosa di al-Saadawi, oltre al fatto che era una fervente femminista araba, avrebbe previsto che la sua richiesta sarebbe stata ignorata. Al-Saadawi non può essere zittita, e ha pronunciato l’esatto discorso che aveva pianificato. Come scrisse in seguito:
Naturalmente, nel mio discorso, non ho minimamente considerato ciò che mi aveva detto, poiché credo che le questioni delle donne non possano essere separate dalla politica. L’emancipazione delle donne nella regione araba è strettamente legata ai regimi sotto cui viviamo, perlopiù supportati dagli Stati Uniti, e la lotta tra Israele e Palestina ha un impatto importante sulla situazione politica. E poi, come possiamo parlare della liberazione delle donne palestinesi senza parlare del loro diritto di avere una terra su cui vivere? Come possiamo parlare dei diritti delle donne arabe in Palestina e in Israele senza opporci alla discriminazione razziale esercitata nei loro confronti dal regime israeliano (al-Saadawi, 2006, p. ii)?
Ma questa interazione tra Friedan e al-Saadawi non ha mostrato solo l’ignoranza di una singola femminista occidentale su una delle eminenti femministe arabe dell’epoca. È stata, e in molti modi rimane, una dimostrazione eloquente dell’approccio problematico del Nord Globale al femminismo del Sud Globale. Si tratta di un approccio che, spesso di proposito, decontestualizza le circostanze delle comunità del Sud Globale e le analizza solo a livello micro, come se funzionassero in un compartimento stagno, immune all’ambiente macro della politica globale sotto forma di colonialismo, occupazione, militarismo, lavoro multinazionale, commercio internazionale, “piani di sviluppo” o altri interventi stranieri. È anche un approccio che continua a privilegiare le donne del Nord Globale rispetto alle donne del Sud Globale. Infatti, come ha sottolineato al-Saadawi, Friedan e altre femministe occidentali in questa stessa conferenza si sentivano libere di “portare” la politica nei loro discorsi e analisi, discutendo della solidarietà con i neri sudafricani e di come porre fine all’apartheid sudafricana. In altre parole, le donne bianche potevano discutere di questioni politiche, anche di altri Paesi, ma le donne del Sud Globale non potevano analizzare fenomeni globali e dovevano invece limitarsi a denunciare il patriarcato nelle loro comunità. Le donne del Nord Globale avrebbero poi teso in solidarietà la loro mano santa, per “salvare” le loro sfortunate “sorelle”.
Questo concetto di “sorellanza globale”, per citare il titolo di un’antologia curata da una collega di Friedan, Robin Morgan, non consente di essere su un piano di parità, e di certo non consente autonomia alle donne del Sud Globale. L’Istituto Sisterhood is Global, fondato da Morgan e Simone de Beauvoir nel 1984, non ha sottoscritto l’appello palestinese al BDS e non ha risposto alle mie richieste di commentare il voto della NWSA.3 Non l’ha fatto nonostante la maggior parte delle organizzazioni di donne e femministe palestinesi - tra cui l’Unione Generale delle Donne Palestinesi (GUPW) e la Federazione Palestinese dei Comitati d’Azione delle Donne (PFWAC) - siano tra i promotori e i firmatari dell’appello del 2005 per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, un appello alla solidarietà coi palestinesi modellato sulla richiesta di solidarietà con i neri sudafricani accolta dalle femministe statunitensi negli anni ‘80. Questa campagna non violenta richiede ampi boicottaggi e iniziative di disinvestimento contro Israele finché non rispetterà gli obblighi sanciti dal diritto internazionale:
Terminare l’occupazione e la colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellare il Muro di Separazione o l’Apartheid;
Riconoscere i diritti fondamentali dei cittadini arabo-palestinesi di Israele alla piena uguaglianza;
Rispettare, proteggere e promuovere i diritti dei rifugiati palestinesi di tornare alle loro case e proprietà come stabilito nella Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.
In realtà non c’è nulla di “radicale” in questi obiettivi, si basano sui diritti umani e chiedono solo che Israele smetta di violare il diritto internazionale. Pertanto, il rifiuto di affrontare le questioni delle donne palestinesi come questioni femministe e il respingimento delle loro ripetute richieste di solidarietà contro un occupante brutale indicano che il femminismo del Nord Globale è ancora impreparato ad affrontare un programma femminista che combatta il colonialismo, invece del nostro patriarcato autoctono. Tuttavia, secondo la studiosa palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian (2014), riguardo le donne palestinesi il femminismo “implica la comprensione della natura e dell’importanza della solidarietà con chi è privo di diritti, qualcosa che finora il femminismo globale, il diritto internazionale e il femminismo israeliano non hanno fatto” (sezione 4, paragrafo 2).
Cosa rilevante alla nostra attuale discussione: l’approccio femminista del Nord Globale ha a lungo esentato Israele da critiche, cercando costantemente di censurare qualsiasi discussione sulle sue politiche oppressive. Le femministe del Nord Globale, come molti liberali del Nord Globale, non vogliono “parlare di politica”, specialmente quando si tratta di Israele. Tuttavia, non hanno tali inibizioni quando si tratta di criticare altri aspetti apertamente politici del sessismo e dell’inequità di genere. È ironico che gli attivisti che sostenevano che “il personale è politico”, un mantra del femminismo bianco degli anni ‘60 (o “femminismo di seconda ondata”, come viene chiamato nel discorso mainstream), neghino che il politico abbia un impatto personale, specialmente sulle donne nel Sud Globale che si trovano all’intersezione di varie strutture oppressive predominanti. Tuttavia, questo “femminismo egemonico” è quello che ha caratterizzato il mainstream fino a poco tempo fa, nonostante l’esistenza simultanea (non tardiva) di un’analisi più radicale e completa da parte delle donne di colore. Se il discorso Ain't I a Woman di Sojourner Truth ancora non basta per dimostrare come le donne di colore siano sempre state emarginate dal femminismo egemonico e lo abbiano messo in discussione fin dall’inizio (e non solo dopo), allora Multiracial Feminism, Recasting the Chronology of Second Wave Feminism di Becky Thompson (2002) è un’ottima obiezione all’idea che il femminismo delle donne di colore sia venuto dopo quello bianco. Tuttavia, anche nel femminismo delle donne di colore, alcune non hanno mai considerato la difficile situazione dei palestinesi come un’importante questione femminista decoloniale, mentre altre hanno continuato a credere alla narrazione diffusa per cui i colpevoli nella Palestina occupata siano i palestinesi, non gli israeliani.
La protezione di Israele da ogni critica affligge l’Occidente da decenni. Di conseguenza, la maggioranza degli attivisti del Nord Globale non si rende conto che il maggior oppressore delle donne palestinesi non è il fondamentalismo islamico, bensì il sionismo, che ha spogliato l'intero popolo palestinese, l’ha privato dei diritti, ne viola quotidianamente i diritti umani. Perciò continuiamo a vedere pacifisti denunciare l’occupazione statunitense dell’Iraq, ma non l’occupazione israeliana della Palestina, come se fossero ignari delle analogie tra le due situazioni. Ad esempio, nel 2012 ero a un evento progressista afroamericano a Seattle: raccoglievo firme per una petizione per far sì che la città disinvestisse dalle aziende che traggono vantaggio dall’occupazione illegale di Israele. Una donna bianca, dichiaratasi ebrea americana, cercò di dissuadermi, dicendomi con tono paternalistico che era “ingenuo” cercare di collegare le oppressioni, e sicuramente non lo avrei fatto se avessi saputo cosa succede in Israele. Quando spiegai che, in quanto attivista palestinese esperta con conoscenze dirette della situazione, non mi definirei “ingenua”, cambiò tattica accusandomi di antisemitismo e cercò di farmi cacciare dall’evento.
Le femministe occidentali sono state e sono pronte a denunciare l’oppressione delle donne arabe a causa del fondamentalismo islamico, ma non a causa dell’occupazione israeliana. Sembrano non sapere dei risvolti misogini dell'occupazione e del militarismo che gravano sulle donne in Palestina, come succederebbe ovunque. Questo sorprende ancor più, nei momenti in cui queste studiose femministe vogliono analizzare la femminilizzazione della povertà in altri Paesi devastati dalla guerra, la privazione dei diritti delle donne quando le istituzioni militari hanno il controllo su una società, la violenza del lavoro sessuale e della schiavitù sessuale nelle zone di guerra e l’aumento complessivo della violenza sessuale nelle comunità che hanno vissuto conflitti armati. Ma quando si tratta di Israele, molte analisi critiche delle femministe occidentali si riducono a un binarismo riduttivo che vede Israele come “occidentale”, “moderno”, “civilizzato” e i palestinesi come “arretrati”, senza cogliere le implicazioni misogine dell’oppressione di Israele sul popolo palestinese. La lente miope guarda solo al microambiente - la società araba - e trascura completamente il macroambiente - l’occupazione di Israele -, le sue gravi discriminazioni e la violazione dei diritti umani del popolo palestinese.
Quando si considerano le circostanze delle donne palestinesi, spesso si tratta di una condanna della “vita sotto il controllo di Hamas”. Tuttavia, da decenni le donne palestinesi spiegano di essere oppresse da Israele e dal sionismo almeno quanto lo sono dai loro connazionali maschi (se non di più). Come ha raccontato Camille Odeh a Nadine Naber (fonte in corso di pubblicazione), fin dagli anni ‘80 l’Associazione delle Donne Palestinesi Unite teneva workshop sulla Palestina insieme a iniziative di attivismo radicale anti-coloniale. Molti saggi di femministe della diaspora araba spiegano che solidarietà con le palestinesi deve implicare la denuncia e l’attivismo contro il sionismo come progetto coloniale. Nel mio saggio, The Burden of Representation, spiego che la libertà di movimento delle palestinesi, il loro diritto all’istruzione, il diritto al voto, al lavoro, di vivere dove vogliono, dove sono nate, il loro diritto a cibo sufficiente, acqua pulita e cure mediche nella propria terra, sono negati non dai loro connazionali, ma dal potere occupante illegale, Israele (Elia, 2011). Questa realtà fondamentale sembra troppo difficile per i liberali in malafede, che preferiscono concentrarsi su codici di abbigliamento e apparenze esterne di “emancipazione”, continuando a soffocare le critiche a Israele parlando di patriarcato o di fondamentalismo “islamico”. Haneen Maikey (2016), direttrice del gruppo queer palestinese Al-Qaws (“arcobaleno” in arabo), ha recentemente dato voce alla frustrazione di molte femministe palestinesi commentando in un post su Facebook:
“Nell’incontro di oggi [con rappresentanti di organizzazioni internazionali] è stata sollevata di nuovo una domanda comune da parte di staff che vive e lavora a Gerusalemme da anni: ‘come opera Al-Qaws a Gerusalemme, un luogo molto conservatore?’ Cercando di essere educata, ho risposto con ‘perché il principale quadro di discussione su Gerusalemme o sulle persone gay in Palestina dovrebbe essere il conservatorismo? Perché non l’occupazione, l’emarginazione economica, il fatto che il suo carattere sociopolitico è cambiato e plasmato dai nuovi insediamenti e dalla demolizione sistematica delle case; o del fatto che il tuo diritto di vivere nella tua città natale è minacciato ogni giorno; una società in cui i più giovani vengono giustiziati per strada; perché non colonizzato, apolide, povero e, sì, anche 'conservatore'?”
Cercare di contestualizzare le questioni legate alla sessualità nei parametri delle norme e delle tradizioni non è solo razzista e strumentalizzante, ma non coglie le innumerevoli forme di violenza contro le persone LGBT in Palestina.
A livello teorico, è generalmente risaputo che l’iper-militarismo, l’occupazione e il colonialismo degli insediamenti siano sempre accompagnati dalla violenza di genere. Il linguaggio stesso che usiamo per riferirci agli atti di appropriazione territoriale riflette questa unione violenta. Un’espressione come “penetrazione nella terra vergine”, comune nella conquista europea del continente africano, o “lo stupro di Gaza”, che sentiamo con ogni assalto israeliano alla regione, sono ricordi storici e quotidiani di questa mentalità. Gli uomini il cui territorio viene conquistato sono considerati “castrati”, il loro fallimento nel proteggere la terra sembra rivelarli come “effeminati”. Si tratta di un linguaggio altamente sessualizzato di dominio e violenza. Ci è anche tristemente noto il mantra “stuprare, saccheggiare, bruciare” che accompagna le conquiste, e sappiamo che le donne sono “il bottino di guerra”. Ovunque, la violenza di genere è parte integrante della conquista e del colonialismo. Israele, una brutale potenza militare che espande costantemente i suoi insediamenti illegali, non fa eccezione. In particolare, quando una tale potenza considera una popolazione - la sua popolazione indigena spogliata, privata di diritti e occupata - come una “minaccia demografica”, tale visione si basa su radici sia razziste sia misogine.
Il controllo demografico razzista si basa specificamente sulla violenza contro le donne. Quindi non sorprende che Mordechai Kedar, un ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, diventato ricercatore, suggerisca senza mezzi termini che “violentare mogli e madri di combattenti palestinesi” dissuaderebbe gli attacchi dei militanti di Hamas (Mezzofiore, 2014, para. 1). Allo stesso modo, la parlamentare israeliana Ayelet Shaked non ha cercato di presentare l’uccisione di bambini palestinesi e delle loro madri come un dannoso e sproporzionato danno collaterale; lo ha apertamente lodato, affermando che anche le donne palestinesi devono essere uccise perché danno alla luce “piccoli serpenti” (cit. in Abunimah, 2015, sezione post tradotta, par. 5). Tuttavia, per le madri palestinesi, come per tutte le madri, il primo pensiero è di proteggere i figli dai danni. In Palestina, quel danno proviene da forze militari e insediamenti israeliani. Molte madri commentano che è impossibile non essere politicizzati fin dall’infanzia, poiché i bambini non possono essere riparati dalla violenza israeliana che li circonda. Altre vogliono che i figli comprendano la gravità della situazione, per affrontarla meglio. Alcune, come Fatmeh Breijeh, ad esempio, incoraggiano la resistenza per la liberazione. Breijeh, di Al Ma’sara, vicino a Betlemme, spiega:
Ho deciso di continuare a resistere fino all’ultimo respiro, di continuare a esortare le persone a resistere, a insegnare ai miei figli a resistere e a gettare le basi col latte con cui li nutro. Le nostre radici sono qui. Noi, questa terra, questa terra, è a questa terra che apparteniamo. Guarda la terra, il suolo; vedrai che ha il nostro colore. Ogni filo d’erba, noi lo conosciamo. Loro non sanno nulla. Sanno solo portare armi e rubare - rubare acqua, rubare le benedizioni della nostra terra, ovunque. (cit. in Naijar, 2014, p. 637)
La resistenza che Breijeh ha deciso di insegnare ai figli è, soprattutto, una resistenza che consiste nella sfida continua di una donna indigena, una resistenza radicata che deriva dalla conoscenza di ogni filo d’erba, al contrario dei soldati e coloni israeliani che “sanno solo portare armi e rubare” (cit. in Naijar, 2014, p. 637).
“La sorellanza è…” selettiva?
Le diverse opinioni nel Nord Globale sulla Palestina hanno tendenzialmente seguito le linee razziali e le relative divisioni socio-economiche. Tuttavia, molte progressiste di colore emarginate nel Nord Globale hanno assimilato il discorso egemonico, basato sulla narrativa sionista, e a lungo hanno trascurato il contesto coloniale della questione palestinese. Come scrivono Simona Sharoni e Rabab Abdulhadi (2015) nel saggio pubblicato poco prima della storica votazione del 2015 della NWSA, e ben 30 anni dopo l’incontro tra Saadawi e Friedan,
Per anni, le femministe nel Nord Globale non hanno compreso perché le donne palestinesi insistano nel collegare le loro lotte per l’uguaglianza di genere alla liberazione nazionale. Di conseguenza, le palestinesi sono state oggetto di iniziative ben intenzionate ma mal orientate, che hanno trascurato la loro autonomia, i loro bisogni e la loro resilienza, concentrandosi su una comprensione ristretta delle “questioni di genere” e sulle critiche al patriarcato e al nazionalismo. ... Alla risposta femminista alla crisi in Palestina mancava la comprensione delle sue cause profonde, ovvero l’occupazione illegale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte di Israele, la violazione dei diritti palestinesi e le politiche simili all'apartheid nei confronti del popolo palestinese." (p. 654)
Infatti, per molte decadi, il femminismo egemonico nel Nord Globale è stato dominato da donne di classe media di discendenza europea, alle prese con il trauma incommensurabile dell’Olocausto. Queste includono Betty Friedan, autrice di uno dei manifesti femministi più influenti del ventesimo secolo, La mistica della femminilità, e che aveva cercato di censurare Nawal al-Saadawi alla Conferenza Internazionale sulle Donne; Robin Morgan, autrice di La sorellanza è potente e co-fondatrice dell’Istituto Sisterhood is Global; Gloria Steinem, fondatrice di Ms. Magazine; Shulamith Firestone, autrice femminista radicale de La dialettica dei sessi; e altre donne di spicco cresciute in famiglie ebraiche subito dopo l’Olocausto o educate a condannare come mali supremi solo l’antisemitismo e poche altre forme di razzismo. Per queste donne bianche, il discorso europeo e la sofferenza europea sono in una classe a parte, al di sopra di ogni altra sofferenza. Quindi, nel discorso egemonico non c’è ancora, fin’oggi, alcun riconoscimento che l’imperialismo europeo abbia portato alla morte violenta di decine di milioni di africani nel continente, oltre ai milioni schiavizzati in Europa e nelle Americhe.
La premio Nobel Toni Morrison ha cercato di inscrivere l’entità di questo orribile episodio nella coscienza nazionale degli Stati Uniti dedicando il suo bestseller Amatissima ai “sessanta milioni e più” di africani schiavizzati che sono periti nella tratta, ma il richiamo è stato messo da parte in favore dell’americanissimo focus sull’individuo, più che sulla collettività. E nonostante le - ampiamente documentate - atrocità commesse dal re Leopoldo II nel Congo, il monarca belga non è mai annoverato agli storici leader assassini insieme ai non occidentali come Pol Pot, Idi Amin, Genghis Khan e altri. Di conseguenza, nonostante la devastazione causata dagli europei al resto del mondo per tutta la storia moderna, l’unico europeo unanimemente riconosciuto come malvagio è Adolf Hitler, le cui vittime erano principalmente europee. In altre parole, quando gli europei devastano Paesi non europei, i loro crimini non sono visti come tali, ma sono distorti e generalmente edulcorati come “scoperte” (come nel caso della conquista spagnola delle Americhe), “mandati” (come nel caso della decisione del cavaliere britannico sul destino della Palestina) o “missioni civilizzatrici”, come nella devastante colonizzazione francese dell’Algeria, del Marocco e della Tunisia. Gli Stati Uniti hanno persino coniato uno dei più grandi eufemismi di tutti i tempi, descrivendo la brutale schiavitù di milioni di africani e dei loro discendenti come “peculiare istituzione”. In Nord America, nella terra oggi conosciuta come Stati Uniti d'America, il 90% delle popolazioni indigene è stato ucciso entro 150 anni dall’arrivo di Cristoforo Colombo. Che tuttavia, è celebrato come esploratore, non conquistatore assassino. In qualche modo, genocidi come quello che Colombo ha lanciato contro i popoli indigeni del Nord America, o quello che il commercio europeo degli schiavi ha inflitto agli africani, non sono visti come quello delle comunità ebraiche europee, perché le vittime non erano europee. Infatti, affermare che 6 milioni di ebrei sono morti nell’Olocausto, o meglio, omettere che nell’Olocausto è perito un numero quasi uguale di altre comunità, per difetti congeniti che li rendevano “diversi”, dimostra che la sofferenza ebraica è elevata al di sopra delle altre: i romaní, i gemelli, gli omosessuali, anche gli africani. Eppure Hitler intendeva “purificare” l’Europa anche da quegli “indesiderati”, spesso dimenticati.
In un contesto così distorto, è a dir poco sorprendente leggere Gloria Steinem affermare che il suo femminismo è sempre stato debitore del femminismo nero. “Ho imparato il femminismo soprattutto dalle donne nere”, ha detto Steinem in un’intervista del dicembre 2015 (cit. in Tisdale, 2015, p.1), aggiungendo che secondo lei il femminismo è sempre stato intersezionale, perché ha sempre preso in considerazione classe e razza. È arrivata persino a dire che le donne nere “hanno inventato il femminismo” (cit. in Tisdale, 2015, p.1). Ma ammesso e non concesso che il femminismo di Steinem abbia davvero sempre tenuto in considerazione classe e razza, limitarsi a riconoscere un debito bianco verso i contributi neri negli Stati Uniti non implica una comprensione critica delle oppressioni strutturali sulle persone di colore. Spesso è solo una facciata in malafede per celebrare la “diversità”, un tentativo di alleviare la colpa bianca professando di essere “debitori”, piuttosto che sfruttatori, delle esperienze delle persone di colore. È evidente soprattutto nell’industria musicale, che riconosce i contributi fondamentali degli afroamericani al rock and roll, jazz, hip hop, rap, ma continua a premiare soprattutto artisti bianchi - sproporzionatamente rispetto agli afroamericani - che sfruttano questi generi neri.
Abbattere la censura: il sionismo è razzismo
Crescendo nel Nord Globale, le donne di colore che non cercavano intenzionalmente un’analisi politica dal Sud Globale sulla questione della Palestina. Assimilavano la narrazione bianca e mainstream della resistenza palestinese come l’ennesimo episodio di violento antisemitismo, continuando la persecuzione secolare (ed europea) del popolo ebraico. L’egemonia del femminismo bianco iniziò a sgretolarsi e disperdersi negli anni ‘80 e ‘90, con la pubblicazione e l’accoglienza straordinariamente positiva di antologie innovative come This Bridge Called My Back, Hacienda Cara e Third World Women and the Politics of Feminism.4 Alla fine, iniziò a formarsi un’analisi più sofisticata, che arrivò alla maggior parte delle comunità femministe. Le giovani donne continuano ancora oggi a leggere Steinem e de Beauvoir, come fosse d’obbligo, ma conoscono anche bell hooks e Audre Lorde. I corsi introduttivi agli studi di genere (in passato solo bianchi, come i libri di storia erano incentrati solo su conflitti e battaglie territoriali di uomini) hanno iniziato a includere uno o due saggi di donne di colore. Ma questi rimanevano spesso “oppositivi”, persino facoltativi, condannando e allo stesso tempo rafforzando la meta-narrazione bianca. Concetti come il doppio rischio e il rischio multiplo, pur sferrando un colpo al vittimismo delle borghesi bianche che soffrivano di noia nel lusso delle loro case confortevoli, erano ancora visti come la sorte delle “minoranze”, piuttosto che della maggioranza globale.
E molte donne di colore continuavano a sostenere la narrazione egemonica sulla Palestina, nonostante un’analisi altrimenti critica del colonialismo. In particolare, molte donne di colore, comprese le donne indigene, si attenevano alla demonizzazione mainstream dei palestinesi, ora considerati l’antico nemico del popolo ebraico, piuttosto che le vittime recenti del sionismo. Con la “Guerra al Terrorismo”, la suggestione orientalista per le donne velate, l’odalisca, l’harem, ha lasciato spazio a una sfrenata islamofobia che vedeva tutti i palestinesi, donne, uomini e bambini, come potenziali terroristi omicidi che nutrono intenzioni malvagie di “annegare il popolo ebraico”. Si dice che la prima ministra israeliana putativamente femminista Golda Meir abbia dichiarato: “La pace arriverà quando gli arabi [palestinesi] ameranno i loro figli più di quanto odiano noi”. Sebbene l’accusa non possa essere attribuita direttamente, la sua ampia diffusione nei circoli sionisti è un chiaro segnale di una mentalità che incolpa i palestinesi, un popolo colonizzato e privato dei propri diritti, di “odiare gli ebrei”, invece di vederli come indigeni che cercano di rovesciare l’oppressore.
La trasposizione dei secoli di antisemitismo europeo sul popolo palestinese, nonostante i palestinesi fossero storicamente una comunità diversificata, sia dal punto di vista razziale che religioso, rimane uno dei successi della narrativa sionista della vittimizzazione. Oggi sentiamo dire che “Musulmani ed Ebrei combattono da secoli”, affermazione confutata dalle svariate documentazioni storiografiche della regione, o che “il conflitto Palestina-Israele va avanti da tanto”, una vera dichiarazione a-storica, dato che Israele esiste dal 1948, e i palestinesi resistevano all’espropriazione fin da quando hanno appreso dei piani per attuarla. Anche nelle (erronee) affermazioni che “i popoli di lì hanno sempre combattuto tra loro", il dito è sempre puntato sulle comunità non ebraiche, responsabili della vittimizzazione e la sofferenza storica degli ebrei. Non si riconosce che, tra le varie comunità, le lotte interne tra palestinesi sono state eccezionalmente poche, fin quando il sionismo li ha divisi privilegiando alcuni di loro (la comunità ebraica palestinese e poi altri ebrei arabi) rispetto al resto della popolazione indigena. Gli ebrei regionali ed europei, non nativi, sono diventati i nuovi colonizzatori della Palestina, e la resistenza palestinese non era basata sulla religione, ma sul fatto che i palestinesi venissero sfollati, sfrattati, privati dei diritti politici e umani più fondamentali da una comunità di nuovi immigrati insediati, con diritti e privilegi speciali ed esclusivi. E il sionismo non viene riconosciuto come l'ideologia razzista che è stata ed è, nel suo obiettivo di concedere privilegi ai colonizzatori di una comunità da cui è esclusa la popolazione indigena non ebraica, resa “estranea”. Anche nei circoli delle femministe di colore in Occidente, poche hanno messo in discussione quella narrazione. C’erano ovvie eccezioni, come già detto.5 Ma nel complesso, l’esperienza di molte femministe arabo-americane che denunciavano il sionismo era di alienazione, invisibilità e, spesso, aperta ostilità.6
In The Forgotten ‘-ism’ i membri del ramo di San Francisco dell’Associazione di Solidarietà delle Donne Arabe hanno superato decenni di censura stampa quando hanno coraggiosamente definito il sionismo per quello che è: un sistema oppressivo e violento di razzismo che reagisce con violenza contro chiunque metta in dubbio la sua giustizia. Gli autori di questo coraggioso saggio hanno scritto:
Come attiviste arabe, avevamo chiesto il diritto all'autodeterminazione dei palestinesi, resistendo alla censura delle voci arabe su molteplici fronti: nei media, nelle conferenze pubbliche, nelle nostre aule, nei nostri luoghi di lavoro e tra i nostri amici e colleghi. Confrontando le note e le esperienze, abbiamo scoperto che ciascuna di noi era stata molestata, intimidita e sabotata dai sostenitori del sionismo che cercavano di soffocare la nostra resistenza. Abbiamo realizzato che mentre ci sentivamo emarginate e non supportate nelle nostre quotidiane rivendicazioni per i diritti umani, sociali, politici e nazionali arabi e per la dignità umana, non eravamo sole: le voci delle attiviste donne arabo-americane sono regolarmente controllate e soffocate. (Naber, Desouky, & Lina Baroudi, 2006, p. 97)
Poiché le rivoluzionarie antologie delle donne di colore avevano aperto le porte della ricerca e dell'analisi femminista intersezionale, le donne arabe rimanevano censurate, perché il sionismo, il male che denunciavano sopra ogni altra cosa, veniva rappresentato in modo distorto, "sbiancato" dalla corrente principale, reso a quanto sembra - come tanti crimini commessi nel corso della storia da europei - una missione "civilizzatrice" (sebbene non proprio civilizzante), assediata da aggressori ostili. The Forgotten ‘-ism’, un progetto collettivo dell’Associazione di Solidarietà delle Donne Arabe, capitolo di San Francisco, con Nadine Naber, Eman Desouky e Lina Baroudi come principali autrici, è stato pubblicato per la prima volta dal Women of Color Resource Center e ristampato in The Color of Violence, curato dal collettivo INCITE! Women of Color Against Violence. INCITE! non partì proprio con una comprensione solida della questione della Palestina; la comprese appieno quando alcuni membri la introdussero nel comitato dirigente nazionale, e l’ha centralizzata nella sua analisi fin dai primi anni 2000. Infatti, INCITE! ha reso l’approvazione dei suoi Punti di Unità sulla Palestina un requisito per i rami nazionali, ha creato materiali educativi popolari sulla Palestina e ha facilitato o sponsorizzato workshop sulla Palestina per anni. Non si può sottovalutare il coraggio e l'integrità che è stato necessario per gli attivisti della diaspora araba per cercare e scrivere The Forgotten ‘-ism’, così come per il Women of Color Resource Center, e successivamente INCITE!, per pubblicarlo. Ancora oggi, parlare contro il sionismo richiede coraggio che pochi hanno, e comporta conseguenze molto gravi, come dimostrato dai violenti attacchi personali e professionali contro gli attivisti per i diritti dei palestinesi, dalle richieste di licenziare docenti simpatizzanti per la causa palestinese, dal licenziamento effettivo di alcuni di questi, e dalla paura (pienamente giustificata) degli studenti e insegnanti pro-Palestina di non venire assunti. Ci sono oltre 30 organizzazioni sioniste negli Stati Uniti che monitorano i programmi, le conferenze e le pubblicazioni dei docenti pro-Palestina, e la nuova Canary Mission si concentra sugli studenti attivisti e cerca di influenzare i potenziali datori di lavoro a non assumerli. Mentre queste organizzazioni maccartiste si moltiplicano, si organizzano coalizioni e team di difesa legale per contrastarle. Ma quasi tre decenni fa, per i più era meglio non professare opinioni che riconoscessero l’umanità e l’oppressione dei palestinesi. E tra chi non era vittima del sionismo, pochi se ne preoccupavano.
Nel suo documentario Peace, Propaganda, and the Promised Land, il professor Sut Jhaly del dipartimento di Comunicazioni e Studi Culturali dell'Università del Massachusetts a Amherst (2004) ha spiegato che per anni ha regolarmente condotto sondaggi tra i suoi studenti del primo anno, per misurare la loro cultura generale sugli affari internazionali. Questi hanno mostrato che il 75% degli studenti credeva che i palestinesi stessero occupando Israele, e non il contrario. Questa statistica rivela il livello di ignoranza tra persone anche privilegiate, e probabilmente riflette l’acritico assorbimento nazionale delle menzogne sioniste. I palestinesi e i loro alleati erano sempre messi in difesa, sempre presunti colpevoli, razzisti, antisemiti. Dato che eravamo visti come gli attaccanti, gli invasori, gli occupanti, la nostra resistenza veniva interpretata come terrorismo, e non come lotta decoloniale. Anche oggi, la presa sionista sul discorso nazionale attorno alla questione palestine è tale che i progressisti (non i conservatori) celebrano le condanne della “risposta eccessiva” di Israele senza capire di star rafforzando la menzogna per cui Israele sta solo “rispondendo” alla provocazione palestinese, invece di averla iniziata in quanto occupante, invasore, oppressore.
Con il successo del sionismo nel privare e diffamare l’intero popolo palestinese (uomini, donne e bambini, piuttosto che solo alcune centinaia o migliaia di combattenti), le donne arabe e musulmane non rientrano più nella riduttiva lente orientalista che le vedeva come oppresse dal patriarcato arabo. Inoltre, le donne palestinesi e i loro alleati stavano riscrivendo attivamente quella narrazione orientalista, spiegando che sono più oppresse dal sionismo che dall’Islam. Invece di denunciare la società araba conservatrice, queste femministe stavano denunciando il danno sionista alle loro comunità. Si stavano schierando contro il colonialismo e il razzismo in modi che sfidavano il femminismo egemonico bianco/sionista, pur rimanendo invisibili nei circoli delle donne di colore. Joanna Kadi (1999), curatrice di Food for Our Grandmothers, la prima antologia delle femministe arabo-americane e arabo-canadesi, definiva le femministe arabo-americane “le più invisibili tra le invisibili”, mentre il mio saggio The White Sheep of the Family, pubblicato in This Bridge We Call Home, denuncia anche la nostra esclusione dal femminismo delle donne di colore (Elia, 2002). L’ambiente estremamente ostile incontrato dalle donne arabo-americane nelle discussioni tra i contributori a questa antologia, prima della pubblicazione, rivela quanto molte cosiddette donne radicali di colore ancora diffondessero l’odio sionista verso palestinesi e alleati, e purtroppo, gli editori, Anzaldúa e Keating, cercarono di censurare piuttosto che sostenere questi ultimi, rafforzando così la narrazione egemonica sionista.7
Ma non avere nulla da perdere ti dà un potere particolare. Private di patria, libertà, dignità e autodeterminazione, le donne palestinesi hanno continuato a parlare. Volevano che altre femministe, attiviste e studiose vedessero non solo “oltre il velo”, ma anche, cosa più importante, “oltre l’hasbara” (“propaganda” in ebraico). Insieme ai workshop e all’educazione popolare a cui partecipiamo dagli anni '80, alcune hanno organizzato e guidato delegazioni di attivisti del Nord Globale in Palestina, affinché vedessero con i propri occhi la realtà della vita palestinese sotto l’occupazione, assediata e privata dei diritti nella nostra stessa terra. Le dichiarazioni dei membri di queste delegazioni al ritorno nel Nord Globale testimoniano la durezza della vita sotto il sionismo, così come la determinazione del popolo palestinese a perseverare, resistere e abbattere il colonialismo. Neferti Tadiar (2012), ad esempio, scrisse che
Dichiarare solidarietà e partecipare alla lotta dei palestinesi per resistere e trasformare le condizioni della propria espropriazione e disponibilità a unirsi nella loro aspirazione alla libertà collettiva e all'autodeterminazione, significa anche partecipare alla rifondazione della vita globale, che può essere solo un atto femminista di prim’ordine. (paragrafo 4)
Tadiar faceva parte di una delegazione organizzata dalla Campagna statunitense per il boicottaggio accademico e culturale di Israele. Altre donne di colore si unirono a un’altra delegazione, organizzata dalla studiosa e attivista palestinese Rabab Abdulhadi, e anch’esse, tornate negli Stati Uniti, emisero eloquenti dichiarazioni di solidarietà con l’intero popolo palestinese spogliato dei propri diritti. Il cambiamento era finalmente avviato e, stando ai molteplici progressi in varie comunità radicali, sembra essere inarrestabile.
Sconfiggere il sionismo come prassi decoloniale
Nonostante il dolore occasionale per il tradimento di presunti alleati, i palestinesi mantengono ferma la determinazione nel spiegare al mondo che il loro desiderio di libertà non deriva da qualche irrazionale e indelebile ceppo antico di antisemitismo, ma dall’impulso umano di essere liberi, sovrani e vivere una vita dignitosa. I palestinesi sanno di essere stati spogliati dal colonialismo e che la loro è una lotta decoloniale. Ho sostenuto nell’apertura di questo articolo che il voto della NWSA non rifletteva necessariamente una “marronizzazione dell'organizzazione”, anche solo in virtù del fatto che una tale affermazione suggerirebbe che le “femministe di colore” sono sempre state a favore della lotta palestinese per la decolonizzazione. Decenni di attivismo negli Stati Uniti raccontano una storia diversa, quella dei palestinesi e dei loro alleati che lottano duramente per scalfire la narrazione egemonica sionista che dipingeva noi, piuttosto che i nostri occupanti, come terroristi razzisti violenti. Questa trasformazione è avvenuta prima tra le femministe di colore, ma non è stata di certo spontanea.
Tuttavia, nonostante i progressi compiuti nel Nord Globale, costituiti principalmente dalla frantumazione della narrazione sionista, il razzismo israeliano è sempre più violento (in media, 3 bambini sono stati uccisi ogni giorno in ottobre e novembre 2015). E ogni attacco militare israeliano ai palestinesi non solo provoca la morte di centinaia di palestinesi, ma causa anche aborti spontanei, parti prematuri e morti nati. Le donne palestinesi nel Negev hanno i tassi più alti al mondo di natimortalità, decessi durante il parto e mortalità neonatale. E queste morti sono direttamente legate alle restrizioni israeliane sulla libertà di movimento dei palestinesi e al diniego israeliano di accesso alle cure sanitarie per le donne palestinesi.
Ma non sono solo donne e bambini palestinesi. Anche mentre ci concentriamo su donne e bambini, dobbiamo contestare l’idea che “donne e bambini” siano degni di compassione, simpatia, aiuto e solidarietà, mentre gli uomini no. Come sottolinea Maya Mikdashi (2014) nel suo saggio, dal titolo azzeccatissimo, Can Palestinian Men Be Victims?,
L’omicidio di donne e bambini è terrificante, ma nella ripetizione di questi fatti inquietanti manca qualcosa: il lutto pubblico degli uomini palestinesi uccisi dalla macchina da guerra di Israele. . . . Dovremmo sapere che il motivo “donne e bambini” stia circolando in relazione a Gaza e alla Palestina in generale. Questo compie molte imprese discorsive, due delle quali sono più prominenti: la massificazione di donne e bambini in un gruppo indistinguibile riunito dalla “somiglianza” di genere e sesso, e la riproduzione del corpo maschile palestinese (e del corpo maschile arabo in generale) come sempre pericoloso. Lo status degli uomini palestinesi (una designazione che include ragazzi di quindici anni e più, e a volte ragazzi di tredici anni) come “civili” è sempre circospetto. . . .
In questo quadro, l’uccisione di donne e ragazze e ragazzi preadolescenti e minorenni deve essere segnalata, ma si presume che ragazzi e uomini siano colpevoli di ciò che potrebbero fare se gli fosse permesso vivere. (paragrafi 2-3)
La denuncia dell’uccisione di donne e bambini, un’espressione introdotta da Cynthia Enloe negli anni ‘90, fa chiedere se gli uomini possano mai essere vittime. Nella mia ricerca, ho spesso notato che sentiamo di un “numero sproporzionato di vittime” donne e bambini e quindi mi chiedo “qual è un numero proporzionato di vittime, di qualsiasi genere o età?” In realtà, ogni politica israeliana, ogni attacco israeliano, ogni massacro, potrebbe essere chiamato “Operazione Uccideteli Tutti”: uomini e donne, bambini e anziani, eterosessuali e LGBTGNC, cristiani e musulmani. Il femminismo non dovrebbe concentrarsi su un segmento della popolazione così strettamente da ignorare altre comunità oppresse. E tutti i palestinesi sono oppressi da Israele. Questo sta finalmente diventando centrale nell’analisi di sempre più femminismi intersezionali e non bianchi.
La giustizia è universale. Mentre guardiamo alla nostra diaspora in Nord America, una potente donna di colore emerge come una delle più grandi eroine di questa terra: Harriet Tubman. Tubman era determinata a liberare quanti più schiavi possibile. Non diceva: “Se sei pacifista, vieni con me. Se non sei un criminale, vieni con me. Se credi nel mio Dio, vieni con me”. Sapeva che la schiavitù era sbagliata, e voleva liberare tutti gli schiavi. Sapeva che la giustizia è universale, che la libertà è un diritto di tutti.
Così, dobbiamo capire che la vera solidarietà con il popolo palestinese non può essere selettiva, se l’intero popolo è spossessato. Haneen Maikey (2016), co-fondatrice e direttore esecutivo del gruppo gay palestinese Al-Qaws, lo ha espresso chiaramente quando ha detto ai gruppi queer occidentali: “Non vogliamo la vostra solidarietà se supportate solo noi. Dovete essere solidali con tutto il nostro popolo”.
Anche se ci concentriamo su come le politiche di Israele influenzano le donne, i bambini e le persone queer palestinesi, dobbiamo tenere presente che il femminismo intersezionale non vuole migliorare solo le circostanze di alcuni. Tutti i palestinesi soffrono per l’occupazione di Israele, come tutti i nativi americani hanno sofferto per il furto di questa terra da parte dell’Europa, e come tutti gli afroamericani hanno sofferto per la schiavitù e continuano a soffrire a causa del razzismo istituzionale e della violenza strutturale.
Conclusione: intersezioni, non parallelismi
Ci sono molte alleanze di lunga data tra i palestinesi e vari movimenti progressisti delle donne di colore e comunità radicali anti-coloniali negli Stati Uniti in generale. Queste potrebbero non essere state molto visibili fino a quando, di recente, movimenti come il Black Lives Matter hanno optato per un’interruzione nazionale delle ordinarie amministrazioni (di morte), e hanno insistito nel pubblicizzare la brutalità di una forza di polizia omicida spesso addestrata in Israele. La frantumazione della narrazione sionista, risultata da decenni di attivismo palestinese nel Nord Globale, ha anche portato a una maggiore comprensione delle implicazioni misogine del colonialismo nei territori palestinesi, portando molte femministe del Nord Globale a realizzare che la lotta per l'autodeterminazione palestinese e la sovranità indigena è in tutto e per tutto una questione femminista. Oltre alle alleanze che ci hanno sostenute, addirittura ospitate, per decenni, ora ne stiamo creando di nuove. Queste alleanze sono molto attese e non devono essere date per scontate. Hanno richiesto un lavoro intenzionale nel conoscere le storie reciproche, nel dare priorità alle strategie, nell’attuare e ricambiare la solidarietà quando il corpo di qualcun altro era in pericolo, a causa di una profonda comprensione dell’intersezionalità. Oggi più che mai, c’è una crescente consapevolezza che le nostre lotte non sono parallele, termine che suggerisce che non si incontreranno mai, ma intersezionali, che si incontrano in vari nodi. La nostra speranza è che la solidarietà reciproca sia un movimento a lungo termine, non un “momento”.
Oggi, i palestinesi e altre comunità criminalizzate e razzializzate si stanno unendo attorno alla questione della prigionia, della violenza delle forze dell’ordine, dei diritti degli immigrati, e della violenza alle frontiere. Ci uniamo nella lotta contro la violenza di genere, ma anche contro il militarismo e il colonialismo. È responsabilità degli attivisti e degli studiosi anti-coloniali comprendere che la solidarietà che celebriamo oggi non è né recente né un momento isolato. Invece, è un movimento di lunga data, sempre in evoluzione, che fluisce e rifluisce mentre le condizioni delle nostre comunità si evolvono e si sviluppano, ma è sempre presente, sempre impegnato con l’oppressore primario, il sistema di eteropatriarcato coloniale razzista. Con questa comprensione e la consapevolezza che il sistema che stiamo combattendo è globale, possiamo apprezzare meglio che la solidarietà tra comunità svantaggiate e criminalizzate non è auto-serviente, ma mutualmente vantaggiosa.
A livello globale, le connessioni che abbiamo instaurato come organizzatori del movimento BDS sono altrettanto importanti e non devono essere abbandonate quando (non se) raggiungeremo i nostri obiettivi. Come scrisse la delegazione di donne di colore e donne indigene nella loro dichiarazione al ritorno dalla visita in Palestina:
Siamo profondamente colpite da come tutti enfatizzano le connessioni tra il movimento per una Palestina libera e le lotte per la giustizia globale; come Martin Luther King, Jr. insisteva per tutta la sua vita: “La giustizia non è selettiva. L'ingiustizia da qualsiasi parte è una minaccia alla giustizia ovunque.” (Ransby, 2011, para. 4)
Parlando alla Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese nel 1997, il gigante sudafricano e premio Nobel Nelson Mandela dichiarò: "Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei Palestinesi". Oggi, possiamo affermare con tutta sicurezza che "da Gaza a Ferguson" è più di una dichiarazione opportuna, è una comprensione dell'interconnessione a lungo termine. E come i veterani della lotta contro l’apartheid in Sudafrica si stanno unendo a noi oggi, un giorno i palestinesi diranno “sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta finché le comunità criminalizzate saranno libere”.
Utilizzo il termine "femministe del Nord Globale" qui per riferirmi alle femministe geograficamente situate nel Nord Globale, che hanno assorbito la narrativa sionista, una narrativa del Nord Globale, indipendentemente dalla loro etnia. Purtroppo, molte femministe razzializzate rientrano in questa categoria.
Ho documentato alcune delle nostre sfide all'interno dei circoli di donne di colore in “The Burden of Representation: When Palestinians Speak Out”, in Rabab Abdulhadi, Evelyn Alsultany, e Nadine Naber (curatori), Arab and Arab-American Feminisms: Gender, Violence, and Belonging (Syracuse University Press, 2011).
Ho contattato l'Istituto La Sorellanza è Globale sulla loro pagina Facebook, e anche dal pulsante “contattaci” sul loro sito web ufficiale. Il mio ultimo tentativo risale a maggio 2016.
This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color, Eds Cherrie Moraga, Gloria Anzaldua. Kitchen Table/Women of Color Press, 2nd ed. 1983. Making Face, Making Soul/Hacienda Caras, Creative and Critical Perspectives by Feminists of Color, Ed. Gloria Anzaldua, Aunt Lute Press, 1990. Third World Women and the Politics of Feminism, Eds. Chandra Talpade Mohanty, Ann Russo, and Lourdes Torres, Indiana University Press, 1991.
Per un’analisi approfondita della lunga alleanza tra femministe arabe della diaspora e il WRC a San Francisco, cfr. Arab America: Gender Politics and Activism di Nadine Naber. NYU Press, 2012.
Ho parlato di questa ostilità in “The Burden of Representation: When Palestinians speak out”, in Arab and Arab American Feminisms: Gender, Violence, and Belonging, Eds. Rabab Abdulhadi, Nadine Naber, and Evelyn al-Sultany. Syracuse University Press, 2011.
Discuto di questo triste episodio in "The Burden of Representation".