Israele: quindi, a chi appartiene questa terra? (Dworkin, 1990)
[TRADUZIONE] Critica allo Stato d'Israele e alle sue politiche sessiste e colonialiste; della militante e femminista radicale Andrea Dworkin. Pubblicato per la prima volta su Ms. Magazine.
È mia. Possiamo chiudere qui. Israele mi appartiene. O almeno così mi hanno insegnato a credere. I miei primissimi ricordi sono di quando ci piantavo alberi. Ho ricordi del seno di mia madre, della fame (era malata e debole); di quando mi asportarono le tonsille a due anni e mezzo, della paura e della carta da parati dell’ospedale; di incubi infantili; di quando venni abbandonata da piccola; degli alberi piantati in Israele. Capite? Ho piantato alberi in Israele prima ancora che potessi riconoscere un vero albero dalla vita reale. A Camden, dove sono cresciuta, c’era cemento. Pensavo che l’enorme e splendido palo telefonico di fronte alla nostra casa a schiera di mattoni fosse un albero senza foglie. Non ero triste: i cavi erano bellissimi. Se penso a "albero" ora, vedo quel pezzo di legno scheggiato, morto, macchiato di marrone irregolare, con i suoi cavi neri selvaggi, tesi nel cielo. Devo forzarmi a ricordare che un albero è più fragile e verde, almeno di solito, almeno nelle zone temperate. Serve un atto di volontà adulta per ricordare che un albero cresce verso l’alto nel cielo, verso il basso nel terreno, e un palo telefonico, per quanto possa essere magnifico, no.
Israele, come Camden, non aveva alberi. Eravamo cemento; Israele era deserto. Loro avevano bisogno di alberi, noi no. La logica era che vivevamo negli Stati Uniti dove c’era abbondanza di tutto, persino di alberi; in Israele non c’era nulla. Quindi dovevamo procurargli alberi. In sinagoga ci davano delle cartelle: carta bianca, spessa, pesante; inchiostro blu, chiaro, reminiscente del verde, ma non verde. Bianco e blu erano i colori di Israele. Aprivi la cartella e all’interno c’era un albero stampato in azzurro chiaro. L’albero era pieno, rotondo, quasi gonfio, un grande arco, rigoglioso, rami che crescevano da rami, da ogni ramo nascevano mucchietti di foglie. In ogni mucchio di foglie, dovevamo mettere una moneta da dieci centesimi. Potevamo usare i nostri soldi del pranzo o le paghette, ma non era granché; quindi dovevamo chiedere a parenti, agli sconosciuti, al poliziotto al passaggio pedonale della scuola, all’inserviente della scuola, chiunque avesse uno spicciolo in più, perché dovevamo riempire le nostre cartelle e poi dovevamo iniziarne un’altra e riempire anche quella. Ogni moneta veniva inserita in una piccola fessura nella cartella, proprio nel mucchio di foglie, così ogni ramo finiva per essere gravato da scintillanti monete. Quando avevi abbastanza monete, l’albero sulla cartella sembrava crescere monete. Questo significava che avevi raccolto abbastanza soldi per piantare un albero in Israele, il tuo albero. Mettevi il tuo nome sulla cartella e in Israele avrebbero piantato il tuo albero col tuo nome sopra. Nella cartella ci mettevi anche un altro nome, una dedica alla memoria di un defunto. Questo albero è dedicato alla memoria di famiglie ebraiche, che non erano mai a corto di morti. Ma negli anni successivi alla mia nascita, dopo il 1946, i morti superarono i vivi. Si poteva toccare il morto ovunque ci si girasse. Te li sentivi addosso; non importa quanto giovane tu fossi. Fosse comuni; ossa; cenere; forni; numeri sulle braccia. Se eri ebreo e vivo, eri una rarità… o quasi. Anche da bambino sentivi una grande solitudine. Essere viva sembrava sbagliato. Vi scoccia sentirne parlare? Non scocciatevi davanti a me. A quel tempo era una cosa nuova e io ero una bambina. Gli adulti non volevano che crescessimo cupi, ansiosi, spaventati o diversi dagli altri bambini. Ci dicevano e non ci dicevano. Ci dicevano e poi se lo rimangiavano. Sussurravano ma abbastanza forte da farsi sentire, poi lo negavano. Va tutto bene. Sei al sicuro qui, negli Stati Uniti. Essere ebreo è, beh, come essere americano: il non plus ultra. Era un grande segreto che cercavano di mantenere e di raccontare allo stesso tempo. Loro erano adulti; e ancora non ci credevano. Tu eri bambino; tu ci credevi.
C’erano due tipi di insegnanti nella mia scuola ebraica: uomini ebrei dagli occhi vivaci, provenienti principalmente dal New Jersey e dai sobborghi di Philadelphia, un centro culturale. Erano uomini mediocri, poveri insegnanti, le cui aspirazioni erano più borghesi che talmudiche. Gli altri erano dei sopravvissuti agli antichi ghetti europei, passati per Auschwitz e Bergen-Belsen: poliglotti, eruditi, spettrali, dagli occhi sbarrati. Nessuno di loro, ovviamente, sapeva l’ebraico. Era una lingua morta, come il latino. Il nuovo progetto israeliano di parlare l’ebraico era considerato un esperimento destinato a fallire. La lingua di Israele sarebbe stata l'inglese. Era solo una questione di tempo. Israele aveva le stesse dimensioni del New Jersey. Israele era un miracolo, una grande avventura, ma era anche del tutto familiare.
Il trucco nel dedicare il tuo albero era avere un vero nome da scrivere sulla tua cartella e sapere chi fosse quella persona per te. Era importante per gli ebrei americani sembrare normali e che gli altri conoscessero i nomi dei loro defunti. Avevamo troppi morti per conoscere i loro nomi; il massacro di massa cancella tutto. Gli immigrati negli Stati Uniti avevano lasciato sorelle, fratelli, madri, zie, zii, cugini, che erano stati massacrati. Dove? Quando? Era tutto un vuoto. I genitori di mio padre erano immigrati russi. Quelli di mia madre ungheresi. I miei nonni si rifiutavano di parlare dell'Europa. “Merde”, mi disse il padre di mio padre, “sono tutti delle merde”. Intendeva gli europei. Era scappato dalla Russia zarista a 15 anni. Aveva fratelli e sorelle, sette in tutto; non ho mai scoperto altro. Erano morti nei pogrom, nella Rivoluzione russa, per i nazisti; tutti scomparsi. I miei nonni da entrambi i lati erano fuggiti per i loro motivi e sono venuti qui. Non si sono mai voltati indietro. Poi arrivò questo nuovo genocidio, nuovo persino per gli ebrei, e non poterono guardarsi indietro. Non c’era modo di recuperare cosa, o chi, era stato perso. Non si può superare qualcosa che non si riesce neanche ad accettare. Loro erano vivi perché erano qui; gli altri erano morti perché erano lì: chi poteva sopportarlo? Da bambina vedevo che i bambini cristiani avevano molti parenti per me insoliti, molto anziani, con titoli onorifici a me sconosciuti: prozia, bisnonna. La nostra famiglia iniziava con i miei nonni. Non c’era nessuno prima di loro. È un’amnesia incomprensibile e inquietante. C’era Eva; dopodiché solo uno spazio vuoto e angosciante, un tunnel di tempo e di nulla con un enorme massacro; poi ci siamo noi. Chi ci era rimasto era nella stanza con noi. Chi non era nella stanza era morto. Gli avevo dedicato tutto il mio lutto, tutti i miei alberi nel deserto, ma chi erano? I miei antenati non sono persone per me: vengo trascinata nella fossa comune per un senso di appartenenza o di identità. Nel piccolo mondo in cui vivevo da bambina, la coscienza era divisa in tre parti: (1) in Europa con quelli lasciati indietro, i morti, e come si poteva accettare il modo in cui erano morti? Anche se il motivo era vecchio e familiare; (2) negli Stati Uniti, il migliore dei mondi possibili: quelli che volevano essere più americani di chiunque altro; più borghesotti, anche se poveri e oppressi; più suburbani, anche se di origine urbana; più normali, più convenzionali, più conformisti; e (3) in Israele, nel deserto, con gli ebrei che, da essere cenere, ora stavano piantando alberi. Non ho mai piantato un albero a Camden, o in qualsiasi altro posto se è per questo. Tutti i miei alberi sono in Israele. Mi hanno insegnato che avevano il mio nome e che erano dedicati alla memoria dei miei defunti.
Un giorno, alla Scuola Ebraica, ho litigato davanti a tutta la classe con il preside; un insegnante, uno studioso, un sopravvissuto, parlava sette lingue e non so in quali campi di concentramento sia stato. In privato, a differenza degli altri, mi parlava, rispondeva alle mie domande. Lo vedevo tremare da solo; gli chiedevo perché; diceva che a volte non riusciva a parlare, non c'erano parole, non riusciva a dire niente, nonostante parlasse sette lingue; diceva di aver visto cose; diceva che non riusciva a dormire, che non dormiva per notti o settimane. Sapevo che sapeva cose importanti. Lo rispettavo. Di solito non rispettavo i miei insegnanti. Davanti a tutta la classe, ci disse che nella vita avevamo l'obbligo di essere prima ebrei, poi americani, poi esseri umani, cittadini del mondo. Ero indignata. Dissi che era il contrario. Che tutti erano prima esseri umani, cittadini del mondo, altrimenti non avremmo mai visto la pace, la fine dei conflitti nazionalisti e delle persecuzioni razziali. Avevo forse 11 anni. Lui disse che gli ebrei nella storia erano stati uccisi proprio perché la pensavano come me, perché mettevano il loro essere ebrei all’ultimo posto; perché non capivano che bisognava essere sempre prima ebrei — nella storia, agli occhi del mondo, agli occhi di Dio. Io dicevo che era il contrario: solo quando tutti erano prima esseri umani, gli ebrei sarebbero stati al sicuro. Lui disse che gli ebrei come me avevano il sangue degli altri ebrei sulle mani; che se avessimo avuto Israele, gli ebrei non sarebbero stati massacrati in tutta Europa; che la patria ebraica era l’unica speranza per la libertà ebraica. Io dicevo che proprio per questo bisognava essere americani dopo essere umani, cittadini del mondo: solo in una democrazia secolare le minoranze religiose avrebbero avuto diritti, sarebbero state al sicuro, non avrebbero subito persecuzioni o discriminazioni. Dissi che se avessimo avuto uno stato ebraico, chi non era ebreo sarebbe diventato automaticamente un cittadino di seconda classe. Dicevo che non avevamo il diritto di fare agli altri ciò che era stato fatto a noi. Più di chiunque altro, conoscevamo l’amarezza della persecuzione religiosa, lo stigma legato alla condizione di minoranza. Dovremmo essere in grado di prevedere le inevitabili conseguenze di avere uno stato che ci metteva al primo posto; perché poi gli altri sarebbero secondi e terzi e quarti. Uno stato teocratico, dicevo, non può mai essere uno stato giusto; e gli ebrei non avevano bisogno di uno stato giusto? Se gli ebrei avessero avuto uno stato giusto, non sarebbero stati al sicuro dal massacro? Israele poteva essere un inizio: uno Stato giusto. Ma allora non poteva essere uno Stato ebraico. Mi disse che avrei avuto il sangue degli ebrei sulle mani. Uscì dall’aula. Non credo mi abbia mai più rivolto parola.
Vi chiederete se questa storia sia apocrifa, o come faccia a ricordarla, o come faccia una persona così giovane ad avanzare tali argomentazioni. L’ultima è semplice: la cosa bella di avere un'educazione ebraica è che ti insegna a discutere, se presti attenzione. Me lo ricordo perché rimasi veramente turbata da ciò che mi disse: avrai il sangue degli ebrei sulle mani. Me lo ricordo perché me lo disse con convinzione. Parte della mia formazione consisteva nell’avere insegnanti che avevano visto troppa morte per mettersi a discutere per diletto. Se sbagliavo avrei avuto il sangue degli ebrei sulle mani; gli ebrei non avrebbero avuto dove stare; sarebbero morti. Capivo che se io o chiunque altro avessimo ostacolato l’esistenza di Israele, gli ebrei potevano morire. Sapevo che Israele doveva avere successo, doveva funzionare. Ogni singolo ebreo adulto che conoscevo lo desiderava, ne aveva bisogno: quelli tormentati dai numeri sulle loro braccia; gli immigrati che erano stati qui, non lì; quelli allegramente più americani di chiunque altro, che volevano un ranch per loro stessi e un esercito per Israele. Israele era la risposta a una quasi estinzione in un mondo reale che si era mostrato indifferente al massacro degli ebrei. Era anche l’unico modo in cui gli ebrei vivi potevano sopravvivere dopo essere sopravvissuti. Quelli che erano stati qui, non lì, per immigrazione o nascita, avrebbero creato un altro qui, un qui diverso, un rifugio intenzionale, non uno trovato per caso con la fortuna. Quelli vivi dovevano capire come affrontare la colossale colpa di non essere morti: essere i prescelti, questa volta per davvero. La costruzione di Israele era un ponte per passare sulle ossa; un impegno per la vita contro la trazione suicida del passato. Come posso vivere, dopo quello che ho vissuto? Creerò un luogo in cui gli ebrei possano vivere.
Grazie al mio personale e fervente sforzo per capire il razzismo (dai Nazisti alla situazione che ho vissuto, l’odio nei confronti delle persone nere negli Stati Uniti, la segregazione legale nel Sud), sapevo che Israele era impossibile; fondamentalmente sbagliato; organizzato per tradire le aspirazioni egualitarie, perché era stato costruito fin dall'inizio su una definizione razziale del cittadino desiderato; perché era stato costruito fin dall'inizio sull'esclusione, stigmatizzando necessariamente chi non era ebreo. L’uguaglianza sociale era impossibile, a meno che non ci vivessero solo ebrei. Con vicini ostili e un paradigma razziale per l’identità dello Stato, Israele doveva diventare o una fortezza o una tomba. Non pensavo che avrebbe reso gli ebrei più sicuri. Capivo che li rendeva diversi: diversi dalle creature patetiche sui treni, dagli scheletri nei campi; diversi; indelebilmente diversi. Fu un grande sollievo (anche per me) essere diversi dagli ebrei nei vagoni bestiame. Essere diversi contava. Finché durava, l’avrei accettato. E se Israele finiva per essere una tomba, una tomba era meglio delle fosse comuni senza nome di milioni di persone in tutta Europa: diversa e migliore. Feci pace con la diversità; il che significava che feci pace con lo Stato di Israele. Non avrei avuto le mani sporche del sangue degli ebrei. Non avrei aiutato chi voleva che in Israele ci morissero più ebrei, dicendo ciò che pensavo del razzismo implicito. Era vergognoso, davvero: allontanami, Signore, da quegli ebrei miserabili; fammi nuova. Ma era reale e persino la me di 10, 11, 12 anni ne aveva bisogno.
Avrete forse notato che niente di tutto questo ha a che fare con i palestinesi. Non sapevo che ce ne fossero. E poi, non ho menzionato le donne. Sapevo che esistevano, formalmente parlando; la signorina Tal-dei-tali era ovunque, ovviamente: peculiare, tutta composta, reticente e operosa in pubblico. Non ho mai voluto diventare una di loro. Tuttavia, gli adulti continuavano a insistere minacciosamente che un giorno avrei dovuto. A quanto pare era sia destino sia duro lavoro; ci nascevi, ma dovevi anche diventarlo. O padroneggiavi regole eccezionalmente difficili e oscure, troppo numerose e onerose per dirle a un bambino, persino a un bambino che studiava il Levitico; oppure commettevi un errore, la natura del quale non veniva mai specificata. Ma le donne non esistevano come esseri politici e, onestamente, nemmeno come esseri umani. Ci si poteva passare una vita insieme senza sapere mai chi fossero.
Mi raccontarono dei fedayeen: arabi che attraversavano il confine in Israele per uccidere ebrei. Negli anni dopo Hitler, era una cosa mostruosa. Solo una persona priva di qualsiasi umanità, coscienza, decenza o senso di giustizia poteva uccidere gli ebrei. Non erano di lì, venivano da qualche altra parte. Uccidevano civili con attacchi a sorpresa; non si preoccupavano di chi uccidevano, purché fossero ebrei.
Mi sono resa conto solo raggiunta la mezza età di essere stata cresciuta con pregiudizi nei confronti degli arabi e che il pregiudizio non era da poco. I miei genitori erano eccezionalmente consapevoli e coscienziosi del razzismo e del bigottismo religioso, tutti i tipi di pregiudizi che si sviluppano in casa: l’odio per i neri o i cattolici, ad esempio. La loro pedagogia era molto coraggiosa. Hanno assunto una posizione sociale antirazzista, a favore dei diritti civili, che li ha messi contro molti vicini e famigliari. Mia madre mi mise in macchina e mi mostrò la povertà dei neri. Per quanto potevamo essere poveri, dovevo ricordare che essere neri negli Stati Uniti ti rendeva più povero. Ricordo ancora una conversazione con mio padre in cui mi disse che aveva sentimenti razzisti contro i neri. Gli dissi che era impossibile perché era a favore dei diritti civili. Spiegò il tipo di sentimenti che aveva e perché erano sbagliati. Spiegò anche che come insegnante e poi consulente di orientamento lavorava con bambini neri e doveva assicurarsi che i suoi sentimenti razzisti non li ferissero. Da mio padre imparai che avere questi sentimenti non li giustificava; che le persone “buone” avevano sentimenti cattivi e non per questo quei sentimenti erano meno cattivi; che affrontare il razzismo era un processo, qualcosa con cui ci si scontrava attivamente. I sentimenti erano sbagliati e una persona “buona” si doveva assumere la responsabilità di affrontarli. Mi è stato anche insegnato che fatti e sentimenti non sempre vanno di pari passo. I miei genitori si sforzavano di dire “alcuni arabi”, per sottolineare che c'erano persone buone e cattive in ogni gruppo; ma in realtà la mia educazione nella comunità ebraica rendeva quella precisazione abbastanza insignificante. Gli arabi erano primitivi, incivili, violenti (i miei genitori non avrebbero mai accettato tali caratterizzazioni dei neri). Gli arabi odiavano e uccidevano gli ebrei. Davvero, ho imparato che gli arabi erano irrimediabilmente malvagi. In tutti i viaggi che ho fatto nella vita, e sono stati tanti, non ho mai conosciuto nessun arabo: e l’ignoranza è la migliore amica del pregiudizio.
Sulla trentina d’anni ho iniziato a leggere libri scritti da palestinesi. Questi libri mi hanno fatto capire che ero malinformata. Avevo una posizione sufficientemente buona sui palestinesi (o forse dovrei dire “la questione palestinese” per suonare paternalista al punto giusto) una volta che scoprii che esistevano, molto dopo i miei 11 anni. L’ho scoperto forse 20 anni fa. Sapevo che venivano trattati ingiustamente. Ero a favore di una soluzione a due stati. Nel corso degli anni, ho appreso delle torture israeliane sui prigionieri palestinesi; conoscevo giornalisti ebrei che sopprimevano volutamente le informazioni per non “danneggiare” lo stato ebraico. Sapevo che i diritti umani dei palestinesi nella vita quotidiana venivano violati. Come mio padre, sulle questioni sociali, sulle questioni di politica, per la mia gente ero a posto. Queste opinioni mi hanno posto in costante attrito con la comunità ebraica, compresa la mia famiglia, molti amici e molte femministe ebraiche. Per quanto ne so, dalla mia esperienza personale, la comunità ebraica ha giusto di recente — qualcosa tipo l’altro martedì — affrontato davvero i fatti, quelli attuali. Non discuterò della storia contorta, di chi ha fatto cosa a chi quando. Non discuterò del sionismo, se non per dire che è evidente che non sono sionista e non lo sono mai stato. La discussione è la stessa che avevo con il preside della mia scuola ebraica; la mia posizione è la stessa: o otteniamo un mondo giusto o continuiamo a farci uccidere. (Ho anche notato, nel frattempo, che i cambogiani hanno avuto la Cambogia e non è servito a niente. Il sadismo sociale assume molte forme. Accade anche l’inimmaginabile). Ma ci sono questioni di politica sociale e poi c’è il razzismo che vive nei cuori e nelle menti individuali come un pregiudizio su un intero popolo. Si crede agli stereotipi; si crede al peggio; si accetta una caricatura per cui i membri del gruppo sono comici o minacciosi, sempre spregevoli. Non credo che gli ebrei americani cresciuti come me siano liberi da questo pregiudizio. Ce l'hanno insegnato da bambini e ciò ha aiutato il governo israeliano a giustificare ai nostri occhi ciò che hanno fatto ai palestinesi. Siamo stati accecati, non solo dal nostro bisogno di Israele o dalla nostra lealtà verso gli ebrei, ma da un pregiudizio profondo e reale contro i palestinesi che equivale all'odio razziale.
La terra non era vuota, come mi hanno insegnato: ah sì, ci sono alcune tribù nomadi, ma non hanno case nel senso normale, non come noi nel New Jersey; ci sono solo alcune genti incolte, primitive, sporche, che non lo vogliono nemmeno uno Stato. C’erano persone e c’erano persino alberi; alberi distrutti dai soldati israeliani. I palestinesi hanno ragione quando dicono che gli ebrei li consideravano niente. Mi hanno insegnato che erano niente nel senso più letterale. Prendere quel Paese e trasformarlo in Israele, lo Stato ebraico, è stato un atto imperialista. Per gli ebrei le frasi così sono incomprensibili. Come potevano i quasi morti, i quasi estinti, il popolo che era cenere, aver imperializzato qualcuno, qualcosa? Ebbene, Israele è un caso unico nel suo genere: gli ebrei, quasi annientati, hanno preso quella terra e costretto un mondo molto ostile a legittimare il furto. Credo che gli ebrei americani non riescano ad affrontare il fatto che questo è un atto - l'unico atto - di imperialismo, di conquista che riceve supporto. Abbiamo aiutato; ne siamo orgogliosi; eccoci qui. Questo è in contraddizione con ogni idea che abbiamo su chi siamo e su cosa significhi essere ebrei. È anche vero. Abbiamo tolto un Paese da chi ci abitava; noi, i privati di tutto, alla fine abbiamo fatto lo stesso ad altri; abbiamo detto: “Sono arabi, andassero a vivere in un posto arabo”. Quando gli israeliani dicono che vogliono essere giudicati secondo gli stessi standard applicati al resto del mondo, non da uno speciale per gli ebrei, n parte intendono dire che questo è come va il mondo. Forse è la prima volta per gli ebrei, ma tutti gli altri lo fanno da sempre. È storia registrata. Sono cresciuta nel New Jersey, che è grande quanto Israele; non molto tempo fa apparteneva agli indiani. Poiché gli ebrei americani si rifiutano di affrontare proprio questo fatto - ci siamo presi la terra - gli ebrei americani non possono permettersi di conoscere o affrontare i palestinesi: all’inizio, neanche solo la loro esistenza.
Per quanto riguarda i palestinesi, posso solo immaginare l’umiliazione di perdere, essere conquistati dalla gente più debole, più disprezzata, più castrata sulla faccia della terra. Questa è una tesi femminista sulla virilità.
Crescendo, sentivo parlare di uguaglianza tra i sessi solo quando mi veniva insegnato ad amare e avere fedeltà al nuovo Stato di Israele. Questo nuovo Stato stava sorgendo col principio che uomini e donne fossero uguali in tutti i modi. Per i miei insegnanti, la servilità non si addiceva al nuovo ebreo, che fosse maschio o femmina. In questo nuovo Stato, non c'era distinzione tra forte o debole, o tra più o meno importante in base al sesso. Tutti lavoravano: fisicamente, umilmente, in cucina; non c'erano, come diciamo ora, stereotipi di genere. Poiché tutti lavoravano, ognuno aveva uguali responsabilità e ruolo. In particolare, le donne erano cittadine, non madri.
Stranamente, questo era l’aspetto più esotico di Israele. In New Jersey, non c’era uguaglianza tra i sessi. In New Jersey, nessuno ci pensava, né se ne sentiva la necessità o il desiderio. Nella scuola ebraica non c’era parità di genere. Non importava quanto intelligenti o devote fossimo: se eri una ragazza, non potevi fare niente di che. L’unica cosa a cui potevi ambire era il matrimonio, anche se avevi talento nello studio. L’uguaglianza tra i sessi l’avrebbero avuta nel deserto con gli alberi; non potevamo mandarla noi perché non ne avevamo. Era un nuovo principio per una nuova terra e contribuiva a formare un nuovo popolo; in New Jersey, non c’era bisogno tali novità.
Quando io stavo crescendo, Israele era praticamente socialista. I kibbutzim, collettivi volontari, erano stati progettati come comunità egualitarie. Stavano per sostituire la tradizionale famiglia nucleare come unità sociale minima nella nuova società: i bambini sarebbero stati cresciuti dall'intera comunità e non come “proprietà” dei loro genitori. Il nuovo paese si fondava su una visione comunitaria.
Qui, le donne erano piuttosto invisibili, e la comunità ebraica era animata da avidità materiale e dal desiderio di appartenere alla classe media. Israele rinnegava nel profondo i valori degli ebrei americani: eppure, gli adulti riuscivano a osannare Israele, mentre nelle loro vite trasgredivano a ogni valore radicale promosso dal nuovo stato. Tuttavia, penso che i bambini ne fossero profondamente influenzati. Non credo sia un caso che i bambini ebrei della mia età crescessero desiderando di rendere realtà la vita comunitaria, o credendo che fosse possibile; o che così tante ragazze alla fine abbiano definito l’uguaglianza tra i sessi come la base delle dinamiche nelle nostre vite politiche.
Mentre le donne negli Stati Uniti vivevano in un mondo crepuscolare, come appendici degli uomini, casalinghe, le donne più forti che conoscevo da piccola lavoravano per l’istituzione, il benessere e la conservazione dello Stato di Israele. Era forse l’unica causa socialmente riconosciuta. Mia zia Helen, ad esempio, l'unica donna single e lavoratrice che conoscevo da bambina, fece di Israele la sua ragione di vita. A lavorare per Israele non erano solo le donne forti, anche quelle non visibilmente tenaci — conformiste — dimostravano d’avere vera spina dorsale quando si occupavano di Israele. L'uguaglianza tra i sessi poteva avere un significato più profondo per loro come adulte rispetto a quanto ne potesse avere per me da bambina. In seguito, con la lunga permanenza di Golda Meir come primo ministro, sembrava che la promessa di uguaglianza stesse venendo mantenuta. Lei era nuova; forgiata dal vecchio, certo, ma resa nuova da un atto di volontà; pubblica; leader di un Paese in crisi. Mia zia Helen e Golda Meir erano molto simili: non vivevano in funzione degli uomini; erano dirette dove altre donne erano elusive; dure; ingenue; formidabili. Le uniche donne formidabili che vedevo erano associate e dedite a Israele, tranne Anna Magnani. Ma quella è un’altra storia.
Finalmente nel 1988, a 42 anni, il giorno del Ringraziamento, in cui celebriamo il furto di questa terra agli Indiani, sono andata per la prima volta in Israele.
Partecipai a una conferenza pubblicizzata come la Prima Conferenza Femminista Ebraica Internazionale. Il tema era l’emancipazione delle donne ebree. I suoi sponsor erano il Congresso Ebraico Americano, il Congresso Ebraico Mondiale e la Rete delle Donne Israeliane, ed era organizzata intorno agli interessi della classe media, da donne di classe media, principalmente americane, che erano a loro volta legate alla leadership maschile dei gruppi sponsorizzanti. Quindi la conferenza era da rivolgersi alle femministe laiche israeliane che si organizzavano dal basso, e così fu. Inizialmente, le femministe laiche israeliane volevano organizzare una conferenza femminista alternativa per rifiutare la conferenza femminista istituzionale, ma decisero di tenere la propria conferenza, che includeva donne palestinesi, il giorno dopo la fine della conferenza istituzionale.
Ci andai per incontrare le femministe israeliane che si organizzavano dal basso: per avere l'opportunità di incontrarle a Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme; per parlare con chi si sta organizzando contro la violenza sulle donne su tutti i fronti; per conoscere meglio la situazione delle donne in Israele. Avevo programmato di rimanere - se l'avessi fatto, avrei parlato anche al centro antistupro di Gerusalemme. Ad Haifa, dove sia io che Phyllis Chesler abbiamo parlato a una sala gremita (che comprendeva donne palestinesi e alcuni giovani uomini arabi) sulla custodia dei bambini e sulla pornografia negli Stati Uniti, le donne erano arrabbiate per la conferenza dell'establishment, per la mediocrità del suo programma, per la sua esclusione dei poveri e delle femministe palestinesi. Una donna sulla sessantina, dall’accento esteuropeo, forse polacca, alla fine si è alzò e disse più o meno così: “Guardate, è solo l’ennesima conferenza organizzata dagli americani. Puntuali come un orologio svizzero. Usano queste innocenti” – indicando Phyllis e me – “che non sanno cosa stanno facendo”. Hanno riso tutti, soprattutto noi. Non mi sentivo dare dell’innocente da molto tempo, né tantomeno venivo percepita tale. Ma aveva ragione. Israele mi ha messo in ginocchio. Innocente era la parola giusta. Ecco cosa ha compromesso la mia innocenza, per quanta ne potessi avere.
1. La legge del ritorno
Alla conferenza dell'establishment hanno partecipato donne ebree provenienti da molti Paesi, tra cui Argentina, Nuova Zelanda, India, Brasile, Belgio, Sudafrica e Stati Uniti. Ogni donna aveva più diritto di essere lì di qualsiasi donna palestinese nata lì, o la cui madre, o la madre di sua madre, era nata lì. Ho trovato tutto ciò moralmente insopportabile. Il mio riconoscimento era semplice, viscerale: non ho diritto a questo diritto.
Per la Legge del Ritorno ogni ebreo entrato nel Paese può diventare immediatamente cittadino; nessun ebreo può essere respinto. Questa legge sta alla base dello stato ebraico, il principio primario della sua identità e del suo obiettivo. I partiti ortodossi, molto quotati nelle ultime elezioni, volevano modificare la definizione di "ebreo" per escludere quelli non convertiti da un rabbino ortodosso, nel rispetto dei principi ortodossi. Le donne presenti alla conferenza istituzionale furono mobilitate per dimostrare dissenso a questa modifica della Legge. La logica che venne usata per coinvolgerle è la seguente: “È la Destra a far ciò. La Destra è cattiva. Ogni cosa che vuole la Destra va contro gli interessi delle donne. Dunque, noi femministe dobbiamo opporci a questa revisione della Legge del Ritorno”. Combattete la Destra. In cuor vostro sapete che questa lotta è per il bene delle donne, ma non ditelo a nessuno: non a Shamir, non ai rabbini ortodossi, non alla stampa; ma soprattutto non ai ragazzi ebrei americani che sponsorizzano la vostra conferenza, che erano in Israele proprio in quel momento a proteggere Shamir e tenere d’occhio le ragazze. Combattete la Destra. Trovate una questione importante per gli uomini ebrei e presentatevi come ausiliare femminile. Rendeteli orgogliosi. Non offendeteli e non fateli arrabbiare facendoli marciare con voi - se vi vogliono - per i diritti delle donne.
La protesta contro la modifica della Legge del Ritorno venne presentata alla conferenza istituzionale come “il primo passo” contro il potere dei rabbini ortodossi. Poiché il potere di questi uomini sulle vite delle donne ebree in Israele è già vasto e malefico, “il primo passo” contro di loro — senza neanche parlare di come sono già tiranni contro le donne — non fu solo inadeguato; fu vergognoso. Avevamo bisogno di un vero primo passo. In Israele, le donne ebree sono praticamente sottomesse alle leggi dell'Antico Testamento, nella loro realtà quotidiana. Complimenti all’uguaglianza tra i sessi. I rabbini ortodossi prendono la maggior parte delle decisioni legali che hanno impatto diretto sullo status delle donne e sulla qualità delle loro vite. Sono loro ad avere l'ultima parola sulle questioni di “status personale”, che le femministe riconosceranno come la famosa sfera privata in cui le donne civilmente subordinate vengono confinate per tradizione. I rabbini ortodossi legiferano su questioni matrimoniali, d'adulterio, di divorzio, di nascita, di morte e di legittimità; cos’è lo stupro; e se l’aborto, le percosse e lo stupro nel matrimonio siano legali o meno. Alla protesta, le femministe non hanno parlato delle donne.
Come ha fatto Israele a finire così? Come hanno fatto i rabbini ortodossi ad avere tutto questo potere sulle donne? Come possiamo spodestarli, cacciarli lontano dalle donne? Perché non esiste un corpus di diritto civile che sostituisca il potere della legge religiosa, che dia alle donne il diritto reale e indiscutibile all'uguaglianza e all'autodeterminazione in questo Paese che tutti abbiamo contribuito a costruire? Io ho 44 anni; Israele ne ha 42; come è potuto succedere? Cosa possiamo farci, ora? Come mai le femministe non hanno “fatto il primo passo” fino alla fine del 1988, addirittura senza far menzione alcuna delle donne? Il “primo passo” delle femministe non era neanche una gattonata.
2. La condizione delle donne in Israele è abietta
Dove vivo io, le donne non se la passano bene. È come una Notte dei Cristalli perpetua, viste le statistiche di stupro e percosse — che sono la pallida ombra della verità — l'incesto, la pornografia, gli omicidi seriali, la pura barbarie della violenza contro le donne. Ma Israele è il colmo. Sorelle: abbiamo costruito un Paese dove le donne sono merda di cane, una roba che pulisci dalla suola delle scarpe. Noi, le “femministe ebraiche”. Noi che ci spingiamo solo fin dove gli uomini ebrei di qui ci danno il permesso. Se il femminismo è una cosa seria, deve combattere la gerarchia sessuale e il potere maschile e gli uomini non possono stare sopra di te, da soli o in gruppo, oggi e per sempre. E non deve aiutarli a costruire un Paese in cui lo status delle donne è sempre peggio mentre quello degli uomini è sempre meglio, sia gli uomini di là che di qua. Da quello che ho visto, sentito e imparato, abbiamo contribuito a costruire un inferno per le donne, un bell'inferno ebraico. Non è così in tutti i Paesi? Beh, non tutti i Paesi sono più giovani di me; non tutti i Paesi hanno iniziato con la parità dei sessi come premessa. La condizione misera delle donne israeliane non è particolare di per sé, ma noi ne siamo particolarmente responsabili. Mi sono sentita disonorata da come le donne vengono trattate in Israele, disonorata e avvilita. Mi ricordo del mio preside alla Scuola Ebraica, sopravvissuto all'Olocausto, che diceva dovessi essere in primo luogo ebrea, poi americana, poi cittadina del mondo e infine un essere umano, o avrei avuto il sangue degli ebrei sulle mani. Per tanto tempo non ho detto niente contro Israele, pur di non avere le mani sporche di sangue. Si scopre che sono una donna in primo, secondo, terzo e quarto luogo; è la stessa cosa; e scopro di avere davvero le mani sporche di sangue ebreo: quello delle donne ebree israeliane.
Il divorzio e le percosse
In Israele esistono tribunali religiosi separati, cristiani, musulmani, drusi ed ebrei. In sostanza, le donne di ogni gruppo sono soggette all’autorità dei più antichi sistemi di misoginia religiosa.
Nel 1953 è stata approvata una legge che pone tutti gli ebrei sotto la giurisdizione dei tribunali religiosi per tutto ciò che riguarda lo “status personale”. Nei tribunali religiosi le donne, così come i bambini, i minorati mentali, i pazzi e i criminali condannati, non possono testimoniare. Una donna non può essere né testimone né, ovviamente, giudice. Una donna non può firmare un documento. Questo potrebbe essere un ostacolo all’uguaglianza.
Secondo la legge ebraica, il marito è il padrone; la donna gli appartiene, visto che, tanto per cominciare, viene dalle sue costole; il suo dovere è quello di avere figli, meglio se con molto dolore fisico; beh, vi ricordate l'Antico Testamento. Avete letto il libro. Avete visto il film. Ma non lo avete vissuto. In Israele, le donne ebree lo fanno.
Il marito ha il diritto esclusivo di concedere il divorzio; è un diritto ineccepibile. La donna non ha questo diritto e non può fare ricorso. Deve vivere con un marito adultero finché lui non la butta fuori di casa (dopo di che le sue prospettive non sono molto buone); se lei commette adulterio, lui può semplicemente liberarsi di lei (dopo di che le sue prospettive sono peggiori). Deve vivere con un maltrattatore finché non si stancherà di lei. Se se ne va, sarà senza casa, povera, stigmatizzata, sfollata, emarginata, in esilio interno nella Terra Promessa. Se se ne va senza il permesso formale dei tribunali religiosi, può essere giudicata una “moglie ribelle”, una vera e propria categoria legale di donne in Israele senza, ovviamente, alcun analogo maschile. Una “moglie ribelle” perde la custodia dei figli e ogni diritto al sostegno economico. Si stima che ci siano 10.000 agunot (“donne incatenate”) a cui i mariti non concedono il divorzio. Alcune sono prigioniere, altre latitanti; nessuna ha i diritti fondamentali di cittadinanza o di persona.
Nessuno conosce l'entità delle percosse. Sisterhood Is Global afferma che nel 1978 sono stati denunciati circa 60.000 casi di violenza domestica; solo due uomini sono finiti in prigione. Nel 1981 ho parlato con Marcia Freedman, ex parlamentare israeliana e fondatrice del primo rifugio per donne maltrattate in Israele, che ho visitato ad Haifa. All’epoca, pensava che le violenze sulle mogli in Israele avvenissero con una frequenza statistica dieci volte superiore a quella registrata qui. Recenti audizioni in parlamento hanno concluso che 100.000 donne vengono picchiate ogni anno nelle loro case.
Marcia Freedman ed io ci trovavamo a Haifa nello stesso periodo. Ho visto solo una parte di ciò che lei e altre femministe hanno realizzato in Israele e contro quali ostacoli. Ora in Israele esistono cinque centri antiviolenza. Quello ad Haifa è una grande struttura in una via urbana. Somiglia agli altri palazzi. Le strade pullulano di uomini. La porta è chiusa a chiave. Una volta entrati, si salgono diverse rampe di scale e si arriva a un grande cancello di ferro all'interno dell'edificio, un cancello che si potrebbe trovare in una prigione di massima sicurezza per uomini. È sempre chiuso a chiave. È l'unica vera difesa contro gli uomini violenti. Una volta aperto, si vedono donne e bambini; grandi stanze comuni, pulite e spoglie; piccole stanze immacolate in cui vivono le donne e i loro figli; un ufficio; un salone; i disegni dei bambini che vivono lì, colorati e spesso violenti; e all’ultimo piano una scuola, con bambini palestinesi e israeliani, piccoli, giovani, perfetti, bellissimi. Questo rifugio è uno dei pochi luoghi in Israele dove bambini arabi ed ebrei vengono educati insieme. Le loro madri vivono insieme. Dietro le grandi sbarre di ferro, dove le donne sono volontariamente rinchiuse per rimanere in vita, c'è un modello vivente di cooperazione palestinese-israeliana: dietro le sbarre di ferro che tengono fuori gli uomini violenti, ebrei e arabi. Le femministe sono riuscite a ottenere i sussidi abitativi per le donne col permesso di vivere fuori dalla casa coniugale, ma il processo di qualifica può durare anche un anno. Le donne che gestiscono il rifugio cercano di ricollocare le donne in fretta - lo spazio serve ad altre - ma alcune restano anche un anno. La sera le donne che gestiscono il rifugio, ormai professioniste, vanno a casa; le donne maltrattate restano, il grande cancello di ferro è la loro unica protezione. Continuavo a chiedermi: e se... e se arriva lui? Le donne possono chiamare la polizia; quest'ultima arriva. Lo sbirro di turno si dimostra cordiale. Qualche volta capita che si fermi lì. Loro gli offrono una tazza di caffè. Ma fuori di lì, non tanto tempo prima, una donna è stata ammazzata di botte dal marito, al quale cercava di sfuggire. Le donne all’interno non sono armate; il centro non è armato; tutto questo in un paese dove gli uomini sono armati. Non c'è alcuna rete di case sicure. Gli indirizzi dei centri non sono nascosti. Le donne devono uscire per trovare lavoro e un posto dove vivere. Anche qui le donne vengono picchiate e ammazzate di botte, no? Ma il marito non riceve un aiuto attivo dallo Stato, per non parlare del Dio degli ebrei. E quando una donna ebrea ottiene il divorzio, deve allontanarsi fisicamente dalla presenza del marito in tribunale. È una disputa per venire picchiate a morte.
Una bozza della “Legge fondamentale sui diritti umani” recentemente proposta da Israele - un equivalente contemporaneo della nostra Carta dei diritti - esenta il matrimonio e il divorzio da tutte le garanzie sui diritti umani.
La pornografia
Bisognerebbe vederla per crederci e anche vederla potrebbe non aiutare. Mi è stata mandata nel corso degli anni dalle femministe israeliane: l'ho vista, ma non ci credevo davvero. A differenza degli Stati Uniti, la pornografia non è un'industria. La si trova nei normalissimi giornali e nelle pubblicità. Riguarda il più delle volte l'Olocausto. In essa, le donne ebree sono sessualizzate come vittime dell'Olocausto su cui gli uomini ebrei possono masturbarsi. Ebbene, ci credereste, anche se lo vedeste?
Le donne israeliane la chiamano "pornografia dell'Olocausto". I suoi temi principali sono il fuoco, il gas, i treni, la cachessia e la morte.
Nella classica impaginazione, tre donne in costumi da bagno sono in posa come se guardassero e si allontanassero da due uomini in motocicletta. Le moto, di metallo nero, si muovono in primo piano verso le donne, minacciose. Le donne, fragili e indifese nella loro quasi nudità, sono sullo sfondo. Poi le donne, stavolta in biancheria succinta, vengono mostrate mentre cercano di scappare dagli uomini in questione, con enfasi sulle cosce, sui seni nudi e sui fianchi accentuati. Le loro facce hanno espressioni di paura e delirio. Gli uomini le stanno trattenendo fisicamente. Dopodiché le donne, ora in nuovi costumi da bagno, sono stese a terra, apparentemente morte, con alcune parti dei loro corpi asportate e sparse intorno mentre i treni stanno per passare su di loro. Persino mentre si vede un braccio tagliato via, una gamba asportata, i treni che stanno per investirle, le donne vengono messe in pose che accentuano i fianchi e il luogo d'entrata nell'area vaginale.
O un uomo che versa benzina sul viso di una donna. Oppure viene messa in posa accanto a una lampada che ricorda il soffione di una doccia.
O due donne che, con le loro costole ben in vista, in mutandine strettissime, posano davanti a un muro di pietra, quasi carcerario, con accanto da un lato un estintore e dall'altra un forno aperto. Le loro posizioni corporee replicano quelle dei detenuti nudi dei campi di concentramento nelle fotografie documentarie.
Ovviamente, c'è anche del sadismo avulso da questioni etniche, al di fuori del trauma storico — pensate che gli uomini ebrei non sappiano essere dei normali bravi ragazzi? La copertina della rivista mostra una donna nuda con le gambe divaricate, con enfasi visiva sui suoi grandi seni. Dei chiodi sono conficcati nei suoi seni. A un capezzolo sono attaccate enormi pinze. È circondata da martelli, pinze e seghe. Sul suo volto c'è un'espressione che sembra un orgasmo. La donna è reale. Gli attrezzi sono disegnati. Il titolo dice: Sesso in Officina.
La stessa rivista ha pubblicato tutte le violenze visive descritte sopra. Monitin è un mensile di sinistra liberale letto dall’intellighenzia e l’alta società. Ha produzioni e valori estetici elevati. Vi pubblicano i più illustri scrittori e intellettuali israeliani. Judith Antonelli su The Jewish Advocate ha riferito che Monitin “contiene immagini di sesso estremamente violento. Abbondano le foto di donne distese a testa in giù come se fossero state appena aggredite”.
Oppure, in una rivista per donne non dissimile dal Ladies' Home Journal, c’è una foto di una donna legata a una sedia con una pesante corda. La camicia è strappata dalle spalle e dalla parte superiore del petto, ma le braccia sono legate contro di lei in modo che solo la parte carnosa della parte superiore del seno sia esposta. Indossa dei pantaloni bagnati. Un uomo, completamente vestito, in piedi accanto a lei, le sta gettando della birra in faccia. Negli Stati Uniti, certe foto si trovano nelle riviste di bondage.
Per i puristi, esiste una rivista pornografica israeliana. Il numero che ho visto aveva un titolo in prima pagina che recitava: ORGIA A YAD VASHEM. Yad Vashem è il memoriale di Gerusalemme dedicato alle vittime dell'Olocausto. Sotto il titolo, c’era la foto di un uomo coinvolto sessualmente con varie donne.
Che cosa significa questo, a parte che se sei una donna ebrea non scappi in Israele, ma da Israele?
Visitai l'Istituto per lo Studio dei Media e della Famiglia a Herzelia Street ad Haifa: un’organizzazione contro la violenza sulle donne. Lavorando con i centri antistupro (e raccogliendo fondi per mantenersi), l’Istituto analizza i contenuti di violenza mediatica contro le donne; mette in mostra e combatte la legittimità che la pornografia riceve venendo incorporata nel mainstream.
C’è indignazione da parte delle donne per la pornografia dell'Olocausto, un profondo e continuo shock; ma poca comprensione del fenomeno. Parlo anche di me. Avendola vista li, avendo provato ad assorbirla, avendone poi visto alcuni sprazzi all'istituto, mi sentii stranita e sconcertata. Qui avevo delle diapositive; in Israele vidi i giornali completi, i contesti in cui sono state pubblicate quelle immagini. Questi erano davvero degli spazi mainstream per la pornografia violenta, con una preponderanza di pornografia dell'Olocausto. Questo la rese peggio: più reale, più incomprensibile. Una settimana dopo, parlai a Tel Aviv di pornografia a un pubblico composto principalmente da femministe. Una di loro suggerì che io applicassi un doppio standard: non sono stati gli uomini in generale a fare questo? E non solo gli uomini israeliani? Ho risposto di no: negli Stati Uniti, gli uomini ebrei non consumano pornografia dell'Olocausto; gli uomini neri non consumano pornografia delle piantagioni. Ma ora non ne sono più sicura. Lo so per certo o l’ho solo pensato? Perché agli uomini israeliani piace questa roba? Perché la fanno? Sono loro a farla; le donne non sono nemmeno minimamente incluse nelle sfere elevate dei media, della pubblicità o dell'editoria, né sono nazisti in fuga con nuove identità. Credo che le femministe israeliane debbano fare di questo una questione essenziale. O la risposta ci dirà qualcosa di nuovo sulla sessualità maschile in generale o ci dirà qualcosa di speciale sulla sessualità degli uomini che passano da vittime a carnefici. Come l'Olocausto è stato sessualizzato per gli uomini israeliani e cos'ha a che fare questo con la violenza sessualizzata contro le donne in Israele; cos'ha a che fare con la grande e dinamica progressiva soggezione delle donne? Le donne ebree stanno venendo distrutte dai nazisti, stavolta con gli uomini israeliani come surrogati? La sessualità degli uomini israeliani è influenzata dall'Olocausto? Li fa venire?
Non so se li uomini israeliani siano diversi dagli altri per aver usato l'Olocausto contro le donne ebree, per eccitazione sessuale. So però che l'uso del sesso come Olocausto è insopportabilmente traumatico per le donne ebree, che il suo posto nel mainstream israeliano è esso stesso una forma di sadismo. So anche che finché esisterà la pornografia dell'Olocausto, solo gli uomini ebrei saranno diversi da quelle povere creature sui treni, nei campi. Le donne ebree saranno più simili a quest'ultime. Allora, come fa Israele a salvarci?
Tutte le altre belle cose
Ovviamente, Israele vanta tutte le altre belle cose che i ragazzi fanno alle ragazze: stupro, incesto, prostituzione. Le molestie sessuali nei luoghi pubblici, per strada, sono pervasive, aggressive e sessualmente esplicite. Ogni donna con cui ho parlato, venuta in Israele da un altro posto, ha menzionato la sua rabbia nel ricevere proposte sessuali per strada, alle fermate dell'autobus, nei taxi, da uomini che volevano scopare e lo dicevano apertamente. Questi uomini erano ebrei e arabi. Contemporaneamente, a Gerusalemme, gli ortodossi lanciano pietre addosso alle donne che non si coprono le braccia. I ragazzi palestinesi che lanciano pietre ai soldati israeliani ricevono proiettili, sia gommati che non. La lapidazione delle donne da parte degli ortodossi è considerata triviale, non una vera violenza. In qualche modo è loro diritto. Beh, cosa non lo è?
A Tel Aviv, prima del mio discorso, parlai con un soldato israeliano sui diciannove anni, membro dell'esercito che occupava la Cisgiordania. Era a casa per lo Shabbath. Sua madre, una femminista, mi accolse gentilmente a casa sua. La madre e il figlio erano osservanti; il padre era un liberale secolare. Ero con la migliore amica della madre, che aveva organizzato l'evento. Entrambe si dimostrarono estremamente dolci, cordiali e generose. Qualche tempo prima, avevo preso parte assieme ad altre quattrocento donne a una veglia contro l'Occupazione a Gerusalemme. Per un anno, le femministe di Haifa, Gerusalemme e Tel Aviv avevano tenuto una veglia ogni settimana, chiamata "Donne in lutto", donne che piangevano la durata dell'Occupazione. Il padre e il figlio erano assolutamente indignati. Il padre disse che tali dimostrazioni non c’entravano nulla col femminismo. Il figlio disse che l'Occupazione non c’entrava nulla col femminismo.
Chiesi al figlio di una cosa che mi era stata raccontata: I soldati israeliani entrano nei villaggi palestinesi e spargono immondizia, vetri rotti, sassi, nelle strade e costringono le donne a ripulire le pericolose macerie a mani nude, senza attrezzi. Credevo che avrebbe negato, o che lo avrebbe giudicato aberrante. Invece mi disse che non c’entrava nulla col femminismo. Parlando, ha rivelato che questo tipo di aggressione è comune; evidentemente l'aveva vista o fatta molte volte. La madre affondò la testa e non alzò più lo sguardo fino alla fine. Sì che c’entrava col femminismo, dissi, perché è una cosa che succede alle donne. Mi rispose che era solo perché gli uomini arabi erano codardi, scappavano e si nascondevano. Le donne, disse, erano forti; non avevano paura, restavano. Ho detto che sì, c’entrava con il femminismo: la vita di ogni donna, per una femminista, ha lo stesso valore. Per il femminismo la vita di una donna araba valeva quanto quella di sua madre. E se i soldati venissero qui adesso, dissi, e costringessero tua madre a uscire in strada, a inginocchiarsi e a pulire i vetri rotti a mani nude?
Dissi che il femminismo riguardava anche lui; il tipo di uomo che era o che sarebbe diventato; come il male che infliggeva agli altri lo avrebbe cambiato; quanto l'avrebbe reso sadico o spietato. Rispose, capendo a pieno: intendi che sarà più facile stuprare?
Rispose che gli arabi si meritavano di venire sparati; che tiravano pietre addosso ai soldati israeliani; che io non ero lì e non potevo sapere; e che comunque non c’entrava niente col femminismo. Io dissi che gli uomini ortodossi lapidavano le donne a Gerusalemme perché non avevano le braccia coperte fino al polso. Lui rispose il paragone era ridicolo. Gli dissi che l’unica differenza che notavo era che le donne non avevano fucili, né il diritto di sparare a quegli uomini. Continuò a dire che non era la stessa cosa. Gli chiesi quale fosse la differenza. Una pietra non è sempre pietra, anche quando colpisce una donna? Non eravamo forse persone in carne e ossa, non perdevamo sangue, non potevamo essere uccise da una pietra? Davvero i soldati israeliani erano più fragili di una donna con le braccia scoperte? Ok, mi disse, tu hai il diritto di sparargli; poi però dovrai andare in tribunale come facciamo noi se uccidiamo gli arabi. Ribattei che loro non dovevano affatto andare in tribunale. La madre alzò la testa, dicendo che c’erano regole, regole ferree per i soldati, davvero, e che non si vergognava di suo figlio. “Noi non ci vergogniamo,” disse, implorando il marito, che non disse nulla. “Non ci vergogniamo di lui.”
Ricordo il calore del sole a Gerusalemme. Centinaia di donne vestite di nero stavano ammassate sui marciapiedi di una grande piazza pubblica della città. “Donne in lutto” cominciò a Gerusalemme nello stesso periodo dell’Intifada, con sette donne in silenziosa processione per mostrare la loro resistenza all'Occupazione. Ora le centinaia di donne che vi partecipano ogni settimana in tre città vanno incontro a derisioni sessuali e a volte pietre. Poiché le dimostrazioni sono aperte esclusivamente alle donne, risultano provocatorie in due modi: israeliane che vogliono la pace coi palestinesi; donne che si mostrano in pubblico. Reggevano cartelli scritti in ebraico, arabo e inglese che dicevano: NO ALL'OCCUPAZIONE. Un fruttivendolo arabo regalò ad alcune di noi, a tutte quelle che riusciva a raggiungere, uva e fichi per aiutarci a sopportare il caldo. Gli uomini israeliani passando ci insultavano, ci gridavano insulti dalle macchine; il traffico era bloccato, con gli uomini che cercavano di tornare a casa per la Vigilia dello Shabbath, quando Gerusalemme si spegne. C’erano anche uomini con cartelli che gridavano che le donne erano traditrici e puttane.
Insieme alla maggior parte dei manifestanti, provenivo dalla postconferenza organizzata dalle femministe laiche popolari. La postconferenza era presieduta da Nabila Espanioli, una donna palestinese che parlava ebraico, inglese e arabo. Le donne palestinesi sono uscite dal pubblico per testimoniare in prima persona ciò che l'occupazione stava facendo loro. Hanno parlato soprattutto della brutalità dei soldati israeliani. Hanno raccontato di essere state umiliate, trattenute con la forza, violate e minacciate. Hanno parlato di sé e delle donne. Per le donne palestinesi, l’occupazione è uno stato di polizia e la polizia segreta israeliana è un pericolo costante; non esiste uno “spazio sicuro”. Sapevo già di avere le mani sporche di sangue palestinese. In Israele ho scoperto che non è più facile da lavare del sangue ebraico e che è anche femminile.
Avevo incontrato Nabila la prima sera in Israele, ad Haifa, a casa di una donna israeliana che aveva dato una meravigliosa festa di benvenuto. Era una notte calda e profumata. Il piccolo, bellissimo appartamento aperto all’aria notturna era pieno di donne di Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, femministe che lottano per le donne, contro la violenza. Era la vigilia del Sabbath e ci fu una semplice cerimonia femminista: del pane spezzato, una pagnotta, tutte insieme; parole laiche di pace e di speranza. E poi mi sono ritrovata a parlare con questa donna palestinese. Parlava a raffica di pornografia. Era il suo campo di studio e la conosceva a fondo, si riconosceva in essa, sotto di essa, violata da essa. Mi disse che era il fulcro della sua resistenza allo stupro e al razzismo sessualizzato. Anche lei voleva la libertà e la voleva a modo suo. Ho pensato: con tutto quello che abbiamo in comune, chi può separarci? Vediamo le donne con gli stessi occhi.
In Israele, esistono due categorie di occupati: i palestinesi e le donne. Nell’Israele che ho visto io, i palestinesi presto saranno più liberi. Lì, non ho trovato nessuno dei miei alberi.